L’ho capito sin dalle prime pagine che questo romanzo d’esordio di Viola Di Grado (Settanta acrilico, trenta lana - edizioni E/O - 2011) aveva le carte in regola per lasciare il segno. Se n’è accorto anche Giovanni Pacchiano che, sulle pagine di Domenica de Il Sole 24 Ore del 6 febbraio, scrive: “È un libro fatto di segni del destino il notevolissimo romanzo d’esordio di Viola Di Grado, Settanta acrilico trenta lana. In quest’inizio d’anno, mentre gli editori puntano molto sugli esordienti, ingolositi dai grandi slam di Giordano e della Avallone, lei, i romanzi dei suoi concorrenti, li eclissa. Se c’è giustizia al mondo, farà piazza pulita ai premi“.
Incrociamo le dita!
Nella scheda del libro, Viola (che ho il piacere di conoscere personalmente già da prima della pubblicazione di questo libro) è definita “dark come Amélie Nothomb e letteraria come Elena Ferrante“. Io dico, molto più semplicemente, sebbene questo sia il suo primo libro, che Viola Di Grado è Viola Di Grado. E il segno che questo romanzo lascia (perché lo lascia: leggere per credere!) discende direttamente dalla sua scrittura: originale, mai banale, immaginifica, a tratti cinematografica, graffiante e cinica, ma con punte di lirismo. Una scrittura che procede per simboli e metafore, che cattura e spiazza al tempo stesso… capace di scuoterti, ma anche di farti sorridere. Insomma, sin da questo primo libro Viola Di Grado dimostra di possedere una cifra letteraria del tutto personale che le fornisce un’identità autoriale ben precisa… al di là dell’esordio.
E a proposito della scrittura di Viola, mi piace evidenziare l’opinione della brava Sandra Bardotti di Wuz (la riporto di seguito):
“Laureata in lingue orientali a Torino, Viola Di Grado (nella foto) ha fatto l’Erasmus a Leeds, poi ha viaggiato in Giappone e in Cina, e ora si sta specializzando in filosofia cinese a Londra. Questo romanzo lo ha finito di scrivere due anni fa, quando di anni ne aveva ventuno. Eppure Settanta acrilico trenta lana dimostra una originalità e maturità di lingua e contenuti davvero rara per una scrittrice della sua età. Definita “dark come Amélie Nothomb e letteraria come Elena Ferrante”, Viola Di Grado costruisce il suo romanzo sulla lingua, attraverso iperboli, sinestesie, allitterazioni, parole che dipingono una natura al neon, di plastica, - acrilica, appunto -, sezionando lo spazio ovattato di questa Leeds letteraria come un bisturi. Una lingua che taglia e squarcia la pagina, come se fosse un fiore o vestito. Parole che coniugano esperienza corporea ed estetica, che si collocano esattamente sulla pagina come ideogrammi inscritti nel loro quadrato ideale. Parole che contraddicono la sterilità dell’esperienza depressiva, debordano fuori dal tracciato, si scompongono, si mescolano, si uniscono: chiavi di volta, parole che si fanno carne e riempono lo spazio, parole che significano sempre qualcosa di più della loro forma. Una lingua cesellata come una porcellana orientale eppure sfrontata e insolente come quella che solo a vent’anni si può avere.
Settanta acrilico trenta lana è il romanzo di una bellezza straziata, di una vita persa, ritrovata, persa di nuovo - ciclica, come un buco -, di una vita che muore ogni giorno e ogni giorno risorge, per lanciare una provocazione alle nostre candide esistenze“.
Ecco, mi sembra che le parole di Sandra rendano giustizia alla bella scrittura di Viola.
Addentriamoci nel libro, che ha per protagonista la giovane Camelia (figlia di padre italiano e di madre inglese).
Ecco la scheda che ne riassume la trama: Camelia vive con la madre a Leeds, una città in cui «l’inverno è cominciato da tanto tempo che nessuno è abbastanza vecchio da aver visto cosa c’era prima», in una casa assediata dalla muffa accanto al cimitero. Traduce manuali di istruzioni per lavatrici, mentre la madre fotografa ossessivamente buchi di ogni tipo. Entrambe segnate da un trauma, comunicano con un alfabeto fatto di sguardi. Un giorno però Camelia incontra Wen, un ragazzo cinese che lavora in un negozio di vestiti e che le insegna la sua lingua. Saranno proprio gli ideogrammi ad aprire un varco di bellezza e mistero nella vita di Camelia, attribuendo nuovi significati alle cose. Camelia si innamora di Wen, ma lui la respinge nascondendogliene il motivo. E c’è anche il bizzarro fratello di lui, ossessionato dall’oscura morte di Lily, un’altra studentessa di Wen…
Sono tanti i temi affrontati da questo romanzo. Ne evidenzio alcuni:
- il rapporto con la città (e con i luoghi) in cui si vive
- il rapporto con il “diverso”, con l’altro da sé, simboleggiato anche dal desiderio di studiare una lingua straniera
- il linguaggio degli sguardi come alternativa a quello delle parole
- il rapporto con se stessi e la crisi esistenziale (simboleggiata dal “buco”, metafora di una mancanza e di qualcosa che “inghiotte”: il fosso che causa la morte del padre di Camelia, l’oblò delle lavatrici, i buchi fotografati ossessivamente dalla madre della ragazza).