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Giovanna ha una zia (poco geniale) che fa scoprire le bugie degli adulti

Autore: Antonella Lattanzi
Testata: Tuttolibri - La Stampa
Data: 9 novembre 2019

Esiste il destino? Il sangue, l'eredità del sangue, esistono? Esiste la bontà e la cattiveria? E i luoghi in cui sei nato, sei cresciuto, ti possono distruggere o elevare per sempre, contaminare - nel bene o nel male -come un contagio che ti cresce dentro per diritto di nascita? E i posti in cui non sei nato, ma da cui provieni, e che magari non hai mai visto - i posti in cui sono nati i tuoi genitori, i tuoi nonni, i tuoi avi? Quelli fanno comunque parte dite, ti hanno generato, o ognuno di noi si genera ogni giorno da sé, nasce ogni giorno partorendo sé stesso, con fatica, dolore, e forse anche con inconsapevolezza? Può essere che una frase pronunciata un giorno distrattamente, ascoltata per caso, sferri un colpo d'accetta alla tua vita e ti sbalzi su una nuova strada, un nuovo destino, e tu ti ritrovi di colpo su questa nuova strada, frastornato, ammaccato, ti scrolli la polvere di dosso, ti alzi, ti guardi intorno, e capisci che tutto quello che sapevi della vita era falso? O meglio, che la verità non esiste, esiste solo la vita?

Scrittrice da 12 milioni di copie, traduzioni in tutto il mondo, una serie tv, Elena Ferrante - più conosciuta per la tetralogia de “L'amica geniale” ma autrice anche di capolavori scuri e dolenti come “L'amore molesto” e “I giorni dell'abbondono” - torna con “La vita bugiarda degli adulti”, e spariglia tutto un'altra volta.

Mi sembra che sia stata sempre una sua cifra: avere una voce riconoscibile, una specie di intonazione che senti come se fosse qualcuno a leggerti la storia ad alta voce, non tu, ma imboccare sempre strade nuove. Anche ne “La vita bugiarda degli adulti” c'è Napoli, e c'è una voce narrante femminile. Quella di un'adolescente, Giovanna, figlia di una famiglia della Napoli alta, di sinistra, illuminata, colta, da cui il dialetto è bandito e in cui tutti sono belli e si amano. Un giorno Giovanna sente suo padre Andrea dire a sua madre che la loro figlia «sta facendo la faccia di Vittoria». Vittoria è zia Vittoria, sorella del padre di Giovanna, incarnazione della famiglia di lui e della Napoli dei bassifondi da cui Andrea si è strappato di colpo, con tutte le sue forze, quando era molto giovane. Dimenticando il dialetto. Dimenticando il buio e lo sporco della zona Industriale. Cancellando perfino la faccia di Vittoria dalle foto, con un rettangolo nero, come una bara, perché non esistesse più. Non c'è una zia Vittoria nella vita di ognuno di noi? Che sia una persona, un luogo, un ricordo, qualcosa di orribile che abbiamo fatto? Noi ci mettiamo sopra un rettangolo nero, e forse possiamo dimenticare, ma se poi arriva qualcuno e trova quel rettangolo, e prova a guardarci sotto, che succede?

Che succede, soprattutto, se è tuo figlio o tua figlia a farlo: sangue del tuo sangue, carne della tua carne. Giovanna, che si è sempre sentita amatissima dal padre - come sei bella, le ripete lui da quando era piccola - implode sotto quelle parole dialettali, sentite di nascosto - «sta facendo la faccia di Vittoria». Vittoria è, per i suoi genitori, la Cattiveria. E la Cattiveria è anche la Bruttezza. Giovanna si guarda allo specchio e si vede arcigna, mal fatta, destinata alla sofferenza. Nel primo paragrafo del libro, dunque, si apre un baratro in cui cadono uno a uno tutti i tantissimi personaggi del romanzo - annodati tra loro da legami familiari più o meno stretti - che mutano faccia, carattere, vita, amori romantici e sessuali, credo politico e religioso più e più volte, pagina dopo pagina. Perché noi, in coscienza, non siamo così? Non mutiamo forma, consistenza e morale mille volte nella nostra vita, cercando alla fine soltanto di trovare noi stessi? Di capire chi siamo noi stessi? Se un me stesso esiste?

Giovanna contravviene alle regole dei genitori e si mette alla ricerca di zia Vittoria, un'esplosione di rozzezza, sguaiatezza ma anche di passione: l'altra faccia della terra -seppure sempre dentro Napoli, ma una città è il mondo, perfino una casa è il mondo - rispetto alla gentilezza, alla laicità, alla cultura dei suoi. Ne viene affascinata come da una strega (attenta, zia Vittoria è cattiva, proverà a metterti contro di me, le dice il padre quando la scopre), abbraccia lei e il suo mondo, poi lo rifiuta e scappa. Ma ormai è contaminata. Non tanto dal suo sangue-e il suo sangue è quello di suo padre e sua madre, è vero, ma anche quello della zia e dei parenti dei quartieri bassi - quanto dalla possibilità di fare scelte indipendenti. La zia le dice «guarda», osserva i tuoi genitori lei guarda, e quando comincia non può più smettere di guardare. E allora scopre la vita segreta degli adulti.

Scopre il sesso - su di sé, sui suoi amici e parenti-, un sesso parossistico- o orribile o tanto romantico da essere una favola. Scopre l'automortificazione e il dolore dell'automortificazione, ma pure il piacere della corsa sfrenata verso il fondo.

Dentro questa specie di maleficio che ha innescato - può essere che la verità sia un maleficio? non credo che nessuno potrebbe rispondere in coscienza un no convinto - turbinano tutti quelli che conosce: presi, risucchiati, sparati in aria, riammessi in paradiso, riscagliati nell'inferno.

È la rabbia che muove Giovanna, certo. Ma è anche una vitalità infinita. Un amore infinito. La muove quella cosa viscida, arroventata e sfuggente ma incredibile che è la forza dell'adolescenza.

In una storia che non smette mai di ribaltare le verità che rivela, di farti amare e odiare ogni personaggio, la voce della Ferrante ci guida, ci scuote, ci trascina. Giovanna non può smettere di guardare. Neanche noi possiamo. Anche noi vogliamo, dobbiamo a tutti costi sapere.