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Elena Ferrante, La vita bugiarda degli adulti (2019)

Autore: Ilaria Moretti
Testata: La clè des langues - École normale supérieure de Lyon
Data: 4 dicembre 2019
URL: http://cle.ens-lyon.fr/italien/litterature/bibliotheque/elena-ferrante-la-vita-bugiarda-degli-adulti-2019

A guardare con attenzione, suggerisce zia Vittoria, si finisce sempre col percepire una realtà sghemba, un disegno distorto eppure realistico, capace di "schizzare" fuori dal perimetro che ci siamo costruiti per necessità. La vita bugiarda degli adulti, ultimo romanzo di Elena Ferrante, è una riflessione sulla precarietà degli individui. Giovanna, l’io narrante, lo capisce presto. È bene saper acuire lo sguardo senza fare passi indietro, senza arretrare dinnanzi alla bruttezza delle cose, alla scompostezza delle forme. Bucare la realtà per scoprire che la menzogna si nasconde dietro l’angolo: le persone non sono mai tutte d’un pezzo e l’esistenza non è solida, ma liquida. Si stempera in fiumare dall’odore nauseabondo. Gli adulti del libro, come il titolo suggerisce, mentono. Lo fanno tutti per convenienza, per quieto vivere o, come dice Costanza, perché la "verità è una cosa assai difficile": i romanzi non bastano per costruire frasi di pronto intervento per limitare la catastrofe. Ci vuole polso per non svicolare dinnanzi al proprio marciume, ci vuole forza per fare come la protagonista che resiste osservando a occhi fermi il proprio squallore.

Elena Ferrante torna a raccontarci una storia al femminile. Questa volta la prospettiva è quella di una ragazzina inquieta che racconta di sé attraverso una lunga confessione traballante, che afferma e ritratta, che avanza e poi cancella. Un terreno scivoloso a cui il lettore si aggrappa, cosciente che, presto o tardi, sarà lui stesso a precipitare nel gorgo della menzogna. Anche lui, come Giovanna, come gli adolescenti del libro, finirà per capitolare nella trappola della bugia, nella difficoltà del discernere ciò che è vero da ciò che non lo è. La narrazione è attraversata da una serie di battute d’arresto: "forse mi verrà in mente in seguito"; "ora non ricordo […] o forse non mi va di ricordare". Giovanna, pur criticando la falsità di convenienza del mondo adulto, sembra cadere nelle sue stesse maglie. Anche lei è incapace di una stesura limpida, la scrittura è una matassa, un "garbuglio che nessuno […] sa se contiene il filo giusto". Così il suo lento percorso di formazione passa attraverso la coscienza che la verità è solo una questione di prospettiva: raccontarla è impossibile. La letteratura inganna, la vita è una matassa di vuoti e pieni. La scrittura, ricorda Ferrante, è un’arma a doppio taglio, come la memoria: imbellisce e poi frantuma. La lingua stessa è, volutamente, un gioco di incastri: alla forma lineare si frappone la metafora grezza, la similitudine rozza. Giovanna racconta e, insieme a Ferrante, trattiene il lettore attraverso un gioco perverso. Lo seduce con un ritmo incalzante. Lo attira nella trappola grazie a una musicalità che incanta e poi, brutalmente, lo schiaffeggia con un linguaggio colloquiale e volutamente ridicolo. Amare nel peccato, sguazzare nel putridume: è questo che Ferrante ci obbliga a fare.

Giovanna, dal canto suo, non si guarda mai allo specchio. Non si piace, anzi, si detesta. Eppure vorrebbe essere amata, nonostante il viso deformato sotto le pressioni della pubertà. Nonostante gli occhi cattivi che nascondono la faccia mutevole di zia Vittoria: la sorella da nascondere, quella che il padre ha cercato di sradicare persino dalle foto di famiglia. La protagonista scopre così che Andrea, quel genitore colto e buono, ha censurato la sorella, cancellando il suo corpo dall’album dei ricordi. Lunghe strisce nere lasciano presagire che con quella parte di sangue – con quel "cattivo sangue" – i legami devono restare recisi. Ma l’adolescenza, si sa, vive di contraddizioni. E Giovanna, quella zia malvagia, la vuole davvero incontrare per comprendere se la bruttezza, quella distorsione del proprio carattere, quella contaminazione dello sguardo che il padre ormai le attribuisce, corrispondano davvero al mostro chiamato Vittoria. Forse la minaccia paterna è solo il frutto di una fantasia infelice: uno spauracchio per redimerla, per permetterle di recuperare la retta via da brava bambina borghese, cresciuta nella Napoli che conta, quella del Rione Alto, in cima a San Giacomo dei Capri. Zia Vittoria vive nella parte bassa, invece. In una Napoli che si fa, ancora: viscere, zona di confine, di ululati selvaggi e case scrostate. Una Napoli impazzita che schiamazza in dialetto, lontana dall’italiano levigato della famiglia Trada, dall’educazione impeccabile di Andrea, professore universitario e di Nella, insegnante di latino e correttrice di bozze di romanzi sdolcinati. Così, l’incontro con il ventre di Napoli è anche l’incontro con una sentimentalità scomposta e caciarona. Zia Vittoria non è affatto un mostro, non agli occhi di Giovanna che la osserva incuriosita, che rimane incantata e forse anche un po’ disgustata da quei modi villani e subito affettuosi, dalla spremuta d’arancia fatta schiacciando la polpa direttamente con la forchetta. Giovanna, cresciuta nel contegno, nelle buone maniere, s’accorge che le lenzuola candide di casa sua rivelano, in realtà, il fetore dell’inganno. La dolcezza nasconde lo spavento, dietro porte chiuse i genitori bisbigliano confessioni di disprezzo, gli occhi lucidi "per il troppo vento" celano, in verità, pene segrete. Persino i sorrisi eleganti si aprono su bocche cariche di saliva, denti aguzzi e urla di dolore.

Così le due Napoli, quella alta della borghesia e quella bassa del Pascone si mescolano fin quasi a combaciare. Non ci si strappa dal cattivo sangue: forse si migliora, forse si può reggere l’inganno per un po’, ma la cattiva genia, sembra dirci Ferrante, t’afferra anche quando credi d’essere scappato lontano. A Milano, per esempio, come ha fatto Roberto. È bello e sapiente: un giovane intellettuale con una carriera promettente e Giovanna lo ama in segreto, credendolo diverso. Ma anche lui, come tutti i maschi, è sensibile all’odore della carne. Anche lui, il professorino che pubblica su riviste importanti, che crede in Dio e predica un mondo migliore, è impregnato del fango del Pascone. Sposare una ragazza del quartiere, la bellissima Giuliana, è solo un modo per saldare un debito con la terra, per non dimenticare le radici, fare prova d’umiltà o forse, più sordidamente, per arrendersi a quel peccato che scorre nelle vene e non s’estirpa. Diventare adulti diviene così, per Giovanna, un apprendistato alla menzogna. Imparare a mentire ai genitori per svincolarsi dal loro amore "appiccicaticcio" e petulante. Mentire a zia Vittoria per sopravvivere alla sua rabbia cieca, al suo desiderio di rivalsa, alla sua presunta intelligenza che, in realtà, è solo vuoto: talento sprecato, sentimentalismo grossolano capace di lunghi slanci ma anche, paradossalmente, di capricci infantili, malefatte che condanna presso gli altri e assolve verso se stessa. Diventare una giovane donna coincide con il mentire anche all’amica Giuliana, che si strugge d’amore per Roberto, che si consuma di gelosia e livore. Quest’ultima sa bene che l’apparenza non conta nulla. Sa bene che il suo sostrato popolare, la malinconia delle strade in cui è cresciuta, la cattiva influenza materna, l’ottundimento intellettivo, prevarranno nonostante gli sforzi, il trucco leggero, le maniere contenute della finta ragazza perbene rivelando, in un soffio, il suo volto disfatto. I capelli cadono a ciocche per l’angoscia, il timore di perdere Roberto coincide, rovinosamente, con la consapevolezza che il destino è solo uno – Lila ne L'amica geniale ce l’aveva già insegnato – basta un niente e tutto crolla. Ma divenire adulti significa, soprattutto, comprensione. Condannare i genitori per le loro mancanze, per le loro debolezze, si rivela un passaggio necessario per comprendere le proprie. Giovanna non teme più, all’affacciarsi della maggiore età, la fragilità del proprio corpo, la bruttezza di quei tratti meschini, perché oltre l’orrore e la menzogna, una cosa resta: il desiderio di una tenerezza inespressa, l’incanto verso certe cioccolate calde, gonfie e leggere. Il potere delle parole, la sfrontatezza di un carattere forte, il prodigio di un amore assoluto e la consapevolezza, forse ancora infantile, che "senza le cose brutte non ci sono le belle" e, dunque, agire male diviene una necessità: un modo per sfiorare la grazia.