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Di romanzi «sintetici»

Autore: Luisa Santangelo
Testata: step1
Data: 2 marzo 2011

"Settanta acrilico trenta lana" è l'opera prima della ventitreenne Viola Di Grado. Ci sono un mucchio di ragioni per giudicare male questo libro prima di leggerlo, e una soltanto che le annulla tutte, dopo averlo letto: è un bel romanzo.

Nota sull'autrice: «Viola Di Grado ha ventitré anni. È nata a Catania, si è laureata in lingue orientali a Torino e studia a Londra. Questo è il suo primo romanzo».
"Settanta acrilico trenta lana" finisce così; non dico la storia, parlo proprio del libro, l'oggetto, quelli fatto di pagine e inchiostro. La più classica delle note sugli autori, in questo caso, riassume alla perfezione tutti i pregiudizi che avevo prima di cominciare a leggere.

Il primo è relativo al fatto che nell'ultimo decennio tutte le scrittrici catanesi emerse dal limbo delle piccole case editrici hanno un solo nome, Melissa Panarello, e no, i suoi libri non li comprerei neanche costassero un euro in fotocopia.

Il secondo riguarda la laurea conseguita: lingue orientali. «Ecco, l'ennesimo volume infarcito di filosofia zen e Banana Yoshimoto», pensavo.

Il terzo pregiudizio aveva a che fare col cognome, Di Grado. Antonio Di Grado, il padre dell'autrice, è docente universitario di letteratura italiana, è uno che di scrittura ne capisce, che editori ne conosce e che magari aveva tanta voglia di aiutare la figlia a realizzare il sogno di riscrivere "Kitchen", con altrettanto successo.

Per farla breve: Viola Di Grado l'avevo bollata come una ragazzina troppo giovane per mettersi a fare la scrittrice, con velleità filosofeggianti e una buona raccomandazione alle spalle. Il libro l'ho comprato pensando di veder confermati tutti i miei preconcetti, sicura che avrei avuto ragione.

Invece, pagina dopo pagina, Viola mi smentiva, mi dimostrava che sì, è un po' acerba, forse a volte ridondante, ma brava. Brava davvero.

La storia di Camelia Mega è atipica, ha il sapore della novità: la vedi, la protagonista, muoversi per Leeds, riconoscere l'accento scozzese del tatuatore, vestire e lavare la madre forzatamente muta da anni, disperarsi per ogni polaroid che ritrae un buco. E la vedi toccare gli abiti e riconoscere quell'acrilico che fa sudare, di pessima qualità, coi colori allegri e, soprattutto, con le maniche mutilate: erano difettosi, e per quello Wen li aveva buttati nel cassonetto dal quale Camelia li aveva resuscitati.

Wen è il proprietario cinese di un negozio di vestiti a piche traverse da Christopher Road, la via che inghiotte la bellezza dove la giovane signorina Mega vive, si muove, impara gli ideogrammi, consuma il suo amore per Wen e traduce manuali di istruzioni per le italianissime lavatrici Gagliardi.

"Settanta acrilico trenta lana" inizia e finisce nell'anno zero, e racconta quello che succede a una ventenne a cui hanno comunicato, nell'anno meno tre, che il padre giornalista, Stefano Mega, era rimasto ucciso in un incidente d'auto assieme alla sua amante.

È una storia nuova, un bel libro, un esordio brillante. Che fa venire parecchio dispiacere per averlo giudicato così male all'inizio.