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Lo Zen e l'arte della spada

Autore: Stefania Auci
Testata: Robinson - La Repubblica
Data: 26 gennaio 2020

C'è poco di convenzionale ne lla vita di Lian Hearn: tra la nascita nell'Herfordshire - in un villaggio dal nome deliziosamente tolkieniano, Potten End - e il successo mondiale della sua Saga degli Otori - cinque miloni di copie, tradotta in 36 Paesi - ci sono un'adolescenza trascorsa tra l'Inghilterra e la Nigeria, una famiglia destinata a sgretolarsi con un doloroso divorzio, una laurea a Oxford, la decisione - nel 1973 - di trasferirsi in Australia e una vera e propria ossessione per la cultura giapponese, cominciata con un viaggio nel 1993 e, da allora, coltivata con serietà e determinazione. È sull'onda di questa passione che, nel 2002, Gillian Rubinstein, già popolarissima autrice di libri per ragazzi (il suo primo romanzo, Space Demons, rimane per ben due anni nella classifica dei bestseller australiani), diventa Lian Hearn, uno pseudonimo esplicito nel suo richiamo a Lafcadio Hearn, lo scrittore irlandese che, nell'Ottocento, rivelò il mistero del Giappone al mondo anglosassone, e scrive Il canto dell'usignolo, primo libro della Saga degli Otori - composta da cinque volumi - uscito da Mondadori più di dieci anni fa e che e/o ripubblica proprio in questi giorni.

Serietà, determinazione, ma anche umiltà: Hearn avverte subito il lettore che «il carattere dell'opera è puramente immaginario e non vi è quindi corrispondenza con luoghi geografici e circostanze storiche precise» - Eppure forse proprio perché guardato (e amato) con occhi occidentali, Il canto dell'usignolo ci regala anzitutto un'esperienza quasi fisica della vita nel Giappone feudale, un mondo "bellissimo e crudele" che visivamente è semplice sovrapporre alle suggestioni dei film di Kurosawa, ma che attinge direttamente - come dice la stessa Hearn - al concetto giapponese di ma, lo spazio - il vuoto - che consente alle percezioni di svilupparsi, uno spazio che chiama non la parola, ma il silenzio. In questa sospensione, che chiama una lingua semplice e diretta, la storia si sdoppia: da un lato, narrate in prima persona, ci sono le vicende di Takeo, un ragazzo che, in seguito allo sterminio della sua famiglia, viene salvato e adottato dal nobile Shigeru del clan degli Otori, e scopre di essere un kikuta, cioè di avere capacità soprannaturali. Dall'altro, raccontata in terza persona, c'è la vicenda della quindicenne Kaede, sin dall'infanzia prigioniera della famiglia Noguchi e, per una serie di giochi di potere, destinata a sposare Shigeru. Se l'incontro - e il successivo innamoramento - di Takeo e Kaede è forse prevedibile, nient'affatto scontata è la dinamica dei personaggi che agiscono accanto ai due giovani, orientandone il destino; dal mjsterioso Muto Kenji, che aiuta Takeo a prendere confidenza con la sua "diversità", alla bella Maruyama, che ha una relazione con Shigeru da oltre dieci anni e sa che non potrà mai sposarlo, da Iida, il feudatario che ha decimato il clan degli Otori, alla Tribù, clan formato da cinque famiglie cui Takeo appartiene per discendenza paterna e che conserva il segreto dei suoi poteri. Ovviamente ognuno di questi personaggi è caratterizzato da emozioni forti - dalla gratitudine al tradimento, dall'invidia all'amore - eppure siamo ben lontani dalla convenzionale divisione buoni/cattivi; consapevoli dell'essenziale imperfezione umana, uomini e donne non si struggono in dilemmi morali e preferiscono agire, anche a costo di commettere gravi errori. Nel Canto dell'usignolo questo atteggiamento emerge con particolare efficacia nei giovani Takeo e Kaede e diventa la premessa per l'evoluzione dei due personaggi già nel secondo volume, Il viaggio di Takeo; quando Takeo comprende di non poter rimanere nella Tribù, decide di fuggire per abbracciare il suo destino di guerriero; Kaede diventa invece una sorta di "guerriera della parola" e si oppone al mondo che vorrebbe schiacciarla attraverso una serie di manipolazioni e di abili mosse diplomatiche.

È facile entrare in questo mondo lontano, astratto eppure concreto, in cui tutti camminano sul sottile confine tra onore e dovere. Varrebbe tuttavia la pena di scoprire anche i romanzi successivi di Lian Hearn, sia quelli più vicini per ispirazione alla Saga di Otori (i quattro volumi di The Tale of Shikanoko) sia quelli "realistici", come Blossoms and Shadows, in cui l'autrice descrive il Giappone alla metà dell'Ottocento attraverso la figura di Tsuru, una donna che decide di diventare un medico, lottando contro le norme sociali che la vorrebbero silenziosa e sottomessa. Sarebbe un modo diverso - documentato e partecipe - di considerare le istanze femministe che tanto incidono sulla nostra quotidianità occidentale. Magari per ispirazione, magari per il desiderio della scoperta o magari, seguendo proprio l'esempio di Lian Hearn, per capire qualcosa di più su noi stessi.