Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Recensione di “Preghiera per Černobyl’”, di Svetlana Aleksievič

Autore: Giulia Pinta
Testata: Russia in translation
Data: 27 aprile 2020
URL: http://russiaintranslation.com/2020/04/26/preghiera-cernobyl/

Preghiera per Černobyl’ è un impressionante romanzo del premio Nobel Svetlana Aleksievič. Il disastro nucleare di Černobyl’ viene ricostruito attraverso le voci di chi nel 1986 era lì.

Una parola, una città, un nome che inevitabilmente rievoca in ognuno di noi quella catastrofe accaduta più di 30 anni fa. Un nome talmente impregnato della paura, del dolore, del sacrificio, della morte di milioni di persone che ormai parla da sé.

Forse anche per questo la HBO, nel 2019, ha deciso di intitolare la sua miniserie soltanto “Chernobyl”, né più né meno, e tutti erano già consapevoli che guardarla non sarebbe stato semplice.

Ciò che viene però messo in scena, nonostante l’estrema obiettività e profondità con cui vengono ricostruiti gli eventi, è incredibilmente soltanto una piccola, piccolissima parte. Sì, perché al dì là dell’incidente nucleare e della caccia al responsabile ci sono vite innocenti, condannate per sempre, e un mondo che non sarà mai più lo stesso.

Questo lo si può facilmente dedurre dal libro della scrittrice Premio Nobel Svetlana Aleksievič Preghiera per Černobyl’, da cui è stato tratto il materiale per la produzione della serie. Nel libro, le migliaia di testimonianze riportate non fanno altro che evidenziare in maniera brutale quanto Černobyl’ abbia stremato e cambiato non soltanto un Paese, quanto anche gran parte dell’umanità.

Tutto ebbe inizio il 26 aprile 1986 alle ore 01:23:45, nel momento in cui esplode un reattore alla centrale di Černobyl’. A nessuno è ancora chiaro cosa sia accaduto, la gente si raduna per strada, sui balconi, nei giardini, ad osservare quel tremendo spettacolo – non un incendio come gli altri, ma piuttosto una strana luminescenza di colore blu – ignara della quantità di radiazioni a cui già si sta sottoponendo.

Nessuno pensava che “la morte potesse essere così bella”. Pochi, all’epoca, sapevano come funzionasse una centrale nucleare, cosa fossero i röntgen, quale soglia fosse ammissibile e quale invece pericolosa.

Il Governo, nei suoi numerosi tentativi di occultare la reale portata dell’evento, fece addirittura sparire dalle biblioteche tutti i libri di fisica sull’argomento. I dosimetri messi a disposizione erano truccati o di scarse capacità e mostravano costantemente valori nettamente inferiori a quelli reali.

Dopo giorni di silenzio, la catastrofe venne descritta dalle autorità come “sotto controllo” e la vita per qualche tempo parve essere quella di sempre. Intanto però le radiazioni, silenziose e impercettibili, inondavano la terra, il cibo, gli animali, il sangue e l’aria, avvelenandoli:

“Le galline avevano le creste nere invece che rosse. E non si riusciva più a fare il formaggio. Siamo stati un mese senza ricotta e formaggio. Il latte non cagliava, si rapprendeva in polvere, una polvere bianca. Era la radiazione…”

“Nel nostro villaggio erano scomparsi i passeri […] Li si poteva trovare dappertutto a pancia all’aria: nei giardini, sull’asfalto. Li raccoglievano col badile e li portavano via nei cassoni della spazzatura insieme alle foglie.”

Gli effetti peggiori e maggiormente duraturi, purtroppo, si videro ovviamente sull’uomo. Ciò che poteva aiutare a combattere gli effetti delle radiazioni erano le pastiglie di iodio, ma non ce n’erano a sufficienza per l’intera popolazione e inoltre, per procurarselo, servivano le conoscenze giuste.

Lo Stato avrebbe dovuto distribuire respiratori, maschere antigas e quant’altro, ma nei depositi segreti trovarono soltanto materiale in uno stato deplorevole ed inutilizzabile, lasciando ognuno al proprio destino.

Gli effetti del disastro nucleare sugli abitanti della zona di Černobyl’ si ripercuoteranno per generazioni C’era chi moriva rapidamente, in appena 14 giorni, gonfiandosi e quasi sciogliendosi, chi invece fu consumato dalla morte giorno per giorno, da dentro. A causa del continuo assorbimento delle irradiazioni aumentò infatti drasticamente, negli anni, il numero di persone colpite da disturbi nervosi, tumori e mutazioni genetiche.

Sono molte le testimonianze che lo raccontano:

“A una coppia di nostri conoscenti è nato un bambino… un bambino talmente desiderato, il primo figlio. Di una coppia giovane e bella. Ma è nato con una bocca che gli arriva fino alle orecchie, che però non ci sono…”

“[…] Ho visto morire un amico… si è gonfiato, è diventato enorme… come una botte… e il vicino… un gruista, era stato anche lui laggiù (Černobyl’). È diventato nero come il carbone, e si è rinsecchito fino alla taglia di un bambino.”

“Dicono che dopo Chernobyl a certe donne anziane si sia formato il latte dalle mammelle, come alle puerpere”

“Ho 12 anni e sono invalida. […] I medici me l’hanno detto: mi sono ammalata perché il mio papà ha lavorato a Černobyl’. E poi ero nata io.”

Tra coloro che subirono particolarmente gli effetti delle radiazioni ci furono sicuramente i soldati e gli addetti impiegati dallo Stato per attuare le varie misure di contenimento. Erano per lo più giovani, tra i 25 e i 40 anni, provenienti da diverse zone dell’Unione Sovietica, chiamati al lavoro da “esercitazioni speciali”, oppure da stipendi duplicati e futili attestati d’onore.

Loro era il compito di far evacuare le città e i villaggi limitrofi al luogo dell’incidente, di rivoltare la terra, gli orti e le discariche, di uccidere gli animali che popolavano aree ormai deserte per poi sotterrarli, avvolti nella plastica, nel cemento o con sabbia e argilla (sepoltura che veniva riservata anche alle persone, nel tentativo di isolare la loro radioattività).

Molti di loro furono impiegati al posto dei robot perché costituivano l’unico mezzo capace di non “spegnersi” immediatamente per via delle radiazioni. Facevano tutto con protezioni scarse e precarie, come tute e guanti di gomma. Nessuno di loro sapeva, però, a quanti röntgen si sottoponeva ogni giorno, ma le autorità avevano trovato il modo di far passare la questione in secondo piano:

“[…] ci hanno dato dentro con la persuasione: chi lavorerà al ventesimo chilometro prenderà doppia paga, chi al decimo, tripla, chi nelle immediate vicinanze del reattore se la vedrà moltiplicare per sei. Uno si mette a calcolare che in sei mesi potrà tornarsene a casa al volante di una macchina di sua proprietà.”

“Una volta, strada facendo, ci siamo imbattuti in un autocarro… Procedeva lentissimo […] Gli chiedo: «Per caso ti senti male che vai così piano?»

«No, sto trasportando della terra radioattiva» […]

«Ma sei pazzo! Così giovane, vorrai sposarti, avere dei figli!»

«Me lo dice lei dove li guadagno cinquecento rubli a viaggio?»”

Ma oltre a quello di servire la propria Patria, gli eroi di Černobyl’ avevano anche un altro obbligo: non dire mai una parola su ciò che avevano visto.

Nel vano tentativo di nascondere e sminuire la reale portata dell’incidente e salvare la faccia del Cremlino, le autorità cercarono di utilizzare tutti i mezzi a loro disposizione: diffusero infatti la voce secondo cui tutte quelle notizie, improntate a sottolineare il pericolo della situazione, non fossero altro che una congiura dell’Occidente, che con i propri giornali tentava di seminare il panico diffondendo soltanto falsità e calunnie contro lo Stato Sovietico; circolò addirittura la convinzione che si trattasse di un attentato americano, volto ad annientare il suo grande nemico per eccellenza.

Per assicurarsi il silenzio non si adoperavano soltanto minacce o congiure, ma anche metodi più estremi:

“Quelli del KGB confiscavano le pellicole alle troupe televisive e le restituivano dopo averle esposte alla luce. In questo modo chissà quanti documenti sono andati distrutti! Quante testimonianze!”

In un momento di storia reso volontariamente offuscato e ancora oggi rimasto particolarmente buio, Preghiera per Černobyl’ si staglia invece come un faro che, caparbio ed ostinato, tenta di riportare alla luce tanti piccoli pezzi di un puzzle che finalmente potrebbe raccontare cosa realmente sia accaduto a Černobyl’, senza più bugie, omissioni e segreti.

I ricordi e le parole strazianti dei numerosi intervistati diventano prova inconfutabile ed impressionano inequivocabilmente ogni lettore, perché la morte riecheggia in ogni riga e in ogni pagina, come anche il coraggio e i sacrifici di chi, per amore della propria famiglia o di sé stesso, ha cercato di combattere qualcosa che non poteva vedere, né sentire, né toccare.

Un nemico invisibile, proprio come quello che stiamo affrontando noi in queste settimane. Che da questo libro si possa imparare quanto la morte possa essere terribile, ma anche quanta forza, amore e vita allo stesso tempo sia in grado di generare.