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L'inferno tra le mura: "Ogni volta che ti picchio" di Meena Kandasamy

Autore: Carolina Pernigo
Testata: CriticaLetteraria
Data: 23 giugno 2020
URL: https://www.criticaletteraria.org/2020/06/Kandasamy-ogni-volta-che-ti-picchio.html

L’idea di conciliare una storia di violenza domestica con un tono ironico può sembrare irrealizzabile, se non schiettamente ossimorica. Eppure è di fronte a questo apparente paradosso che si trova il lettore affrontando le prime pagine di Ogni volta che ti picchio. Il racconto della fuga della protagonista da un marito sadico e aggressivo diventa infatti, nelle cronache di sua madre ai conoscenti, la narrazione epica di una sanguinosa battaglia contro i pidocchi che lei portava con sé come prova evidente della sua condizione di stress. Per riappropriarsi della propria storia, per non esserne estromessa, la figlia prende allora la parola, riavvolge il nastro della memoria e lo srotola come una pellicola davanti ai nostri occhi, per mostrarci come sia stato possibile che una giovane donna colta, una scrittrice con delle ambizioni, sia finita in un gorgo senza uscita. Nella Villa del Piacere, che di gradevole ha solo il nome e il giardino circostante, la donna deve “cambiare mestiere”, farsi attrice, impersonare il ruolo della moglie perfetta, guardare a se stessa dall’esterno per potersi ingannare circa la propria condizione di reclusione, diventare invisibile e insignificante per non irritare il marito: dovrei essere uno spazio vuoto. Uno spazio dal quale è stato cancellato tutto ciò che riflette la mia personalità. [...] Questa piattezza fa contento mio marito. Questa piattezza che ha scrostato via tutta la mia essenza, una piattezza che può essere controllata e plasmata come lui desidera. Questa piattezza è ciò che indosserò oggi, una maschera ordinaria su un viso grazioso, una piattezza che mi terrà nascosta, che eviterà ogni discussione. (pp. 23-24) È con un linguaggio piano e pertanto più sconvolgente che la narratrice ci trasporta al cuore dell’incubo, nella rielaborazione romanzesca – e pertanto dalla portata più ampia – di una vicenda realmente esperita dall’autrice (e i rapporti tra queste due figure femminili vengono chiariti nella meraviglia che sono le ultime pagine del volume). Lo fa attraverso una narrazione non lineare, che salta attraverso il tempo a ricostruire per frammenti la genesi di un rapporto disfunzionale, senza alcuna traccia di autocommiserazione, anzi spesso illuminando il suo racconto con lampi di ironia inaspettata, spiazzante, che consentono di mettere in luce anche aspetti della cultura indiana (e tamil) che le appartiene, ma di cui coglie anche le incongruenze, le esagerazioni, le palesi contraddizioni. La narratrice ci dice dei suoi trascorsi di giovane idealista, comunista per il fascino esercitato dai grandi teorizzatori più che per reale attitudine o pratica; ci dice dell’incontro con un docente universitario di talento, vero cultore del MLM (non “Multi-level Marketing” come pensa la protagonista dopo una rapida ricerca su Google per non sfigurare, ma Marxismo-Leninismo-Maosimo). Ci dice dell’attrazione reciproca, ma anche di segnali sottilmente allarmanti che lei non è stata pronta a cogliere. Solo dopo le nozze, la donna inizia a rendersi conto del proprio errore, del fanatismo e della violenza (prima solo psicologica, ma presto anche fisica) del marito: “il matrimonio diventò un campo di rieducazione. Lui si trasformò in insegnante, e io diventai la moglie-allieva che imparava da questo crociato del Comunismo” (p. 37). Vittima del sopruso non è una donna fragile, insicura. È una donna colta, dalla spiccata personalità, con una famiglia solida alle spalle e senza traumi o questioni irrisolte che possano spiegare una predisposizione alla sottomissione. Eppure il caso è da manuale e i sintomi si presentano già nelle prime settimane di matrimonio: il ricatto psicologico, la costrizione ad un progressivo e ineluttabile isolamento – prima il trasferimento in un’altra città, lontana dalle reti di sicurezza di amici e parenti, poi l’obbligo di uscire dai social, con la conseguente perdita degli ultimi legami col mondo esterno... Più il marito-padrone prende il controllo delle sue comunicazioni e delle sue attività lavorative, in nome del presunto desiderio di “essere una cosa sola”, più la moglie viene espropriata della sua vita: “mi viene la nausea. Mi sento derubata della mia identità” (p. 56). Lui è geloso, sospettoso, paranoico. Lei, per il quieto vivere, accetta una dopo l’altra pretese sempre più insostenibili. Si lascia accusare, umiliare, colpevolizzare. Si lascia picchiare, e ogni occasione si fa pretesto, ogni oggetto strumento di offesa. Eppure, in una società come quella indiana, l’idea che una donna possa abbandonare il tetto coniugale è inconcepibile, disonorevole. Perciò anche la fuga sembra una via impraticabile. Vattene. Vattene. Quella voce che ti si ferma di continuo in gola. È così che capisci che devi scappare. È così che capisci che non è il momento giusto. E anche che non ci sarà mai un momento giusto. [...] Che il mondo ti riderà dietro [...]. Neppure questo sarà altrettanto crudele della vista dei tuoi genitori affranti. Caduti in disgrazia. Hai dato loro soltanto delusioni. Il fallimento che si porteranno negli occhi per il resto dei loro giorni. [...] Sarai costretta a vivere con una sola persona per tutta la vita: te stessa. Quella te che oggi vuole andarsene potrebbe essere la stessa te che domani penserà che sarebbe dovuta restare. (p. 61) La protagonista si ritrova anche senza lavoro, mentre la sua situazione si fa sempre più insostenibile, e nessuno sospetta nulla, neanche i suoi genitori, che la invitano anzi ad assecondare le manie del marito. Kandasamy, intellettuale e attivista indiana, mostra grande lucidità nell’analisi del fenomeno della violenza domestica, che si estende a un’indagine sul (mal) funzionamento del meccanismo sociale e del linguaggio, che sull’altare della politeness sacrifica ogni reale interesse per gli altri esseri umani. Essere una scrittrice in India è già di per sé causa di sospetto, ma se una donna esce di scena, negandosi alle proposte lavorative, la difficoltà diventa insormontabile. Perciò, di fronte a questa identità continuamente minacciata, la donna si impunta, si oppone, anche se solo nella propria testa. La sua attività di scrittura diventa il germe della ribellione, il nucleo del suo desiderio di salvezza: Ormai, essere una scrittrice è diventata una questione di rispetto per me stessa. È il titolo professionale che mi sono auto-assegnata. Mi rendo conto che non esiste nulla che mio marito odi tanto quanto l’idea di “scrittore” (per non parlare di una donna-scrittore piccolo-borghese), così questo mestiere mi appare soffuso di un’aura quasi reverenziale. Ma il punto non è solo andare contro mio marito. Nella sua testa, l’idea stessa di “scrittore” si accompagna a una ripugnante aria da fuorilegge. [...] Per descrivere questo lavoro gli basta una sola parola: disobbedienza. In vita mia non ho mai provato un’attrazione tanto pericolosa per nient’altro. (p. 78) La parola fa paura ai violenti, perché cristallizza le emozioni, le eterna, le sottrae alla manipolazione e al controllo altrui. A meno che, chiaramente, i manipolatori non siano loro (“Ogni volta che ti picchio / il compagno Lenin piange”, scrive il marito, nell’assurdo tentativo di rovesciare il proprio ruolo attraverso l’autocommiserazione). Così la ripicca inizia dentro casa, attraverso righe scritte e poi cancellate perché il prepotente non possa metterci le mani, come primo atto di rivolta. Attraverso lettere ad amanti mai avuti. Amanti che non avrebbero il coraggio di indossare le maschere (anche ideologiche) di cui invece si fa vanto il consorte. Amanti con cui sarebbe possibile parlare, tornare a esprimersi ed essere donna. Di queste lettere, oltre che dei ricordi del passato (in particolare del suo Unico Vero Amore) e di citazioni di poesie amate si compone una narrazione che osa anche dal punto di vista stilistico e cerca prospettive sempre nuove per guardare al tema trattato, liberandolo da qualsiasi retorica. E/o si conferma nella scelta di testi duri, coraggiosi, che spesso rappresentano un rischio dal punto di vista editoriale (il romanzo puro risulterebbe certo più facilmente accessibile) e che pure ripagano nella volontà di uscire dalle vie consuete. La storia della narratrice non può prescindere infatti dal discorso politico e ideologico, che lei esamina e porta avanti, nella dialettica feroce che si consuma tra le pareti domestiche: le idee del marito, ex combattente rivoluzionario e “compagno” invasato, si scontrano con una deflagrazione con quelle femministe di lei, che viene accusata di farsi portatrice di un pensiero borghese che tradisce le rivendicazioni del proletariato e viene progressivamente deprogrammata dall’uomo attraverso i continui soprusi. La donna inizia a vedersi, e descriversi, come un pallino rosso su uno schermo nero. Il consorte lo vorrebbe avviato verso la stella rossa che lampeggia nell’angolo opposto dello schermo, ma il puntino a cui è ridotta la moglie cerca diverse forme di resistenza, soprattutto interiore. Persino il più benevolo stregone tamil crede che, per scacciare il dèmone da una donna posseduta, questa debba essere frustata. [...] Nel nostro matrimonio mio marito è lo stregone. Vuole fare uscire i dèmoni che crede si siano impossessati di me. In mancanza di fasci di foglie di neem fresche con cui picchiarmi [...] usa ripieghi improvvisati: il cavo del mio Mac, la sua cinghia di pelle, cavi elettrici attorcigliati. I miei dèmoni non ne sono felici. Non vogliono lasciarmi alla mercé di quest’uomo. Decidono di restare. (pp. 143, 144) Con il procedere delle pagine, il tono della narrazione si fa serio, cupo, man mano che la violenza dell’uomo cresce, e così anche la disperazione della protagonista, che si rende conto che la situazione non potrà che peggiorare. “Il sesso, o meglio lo stupro, diventa la sua arma per domarmi” (p. 156). La donna inizia a guardare al suo corpo come a un corpo morto. Le pagine dedicate all’annichilimento della donna attraverso l’abuso del suo corpo sono tra le più implacabili di tutta l’opera. Meena Kandasamy non cerca eufemismi o giri di parole: sa che le cose vanno dette, usa frasi precise, taglienti. Perché la parola può essere salvezza, può essere strumento di denuncia: “questo è un uomo pronto a spezzare la moglie. Questo è un uomo che riduce in cenere la propria casa” (p. 163). E non è l’unico, se “in India viene bruciata una sposa ogni novanta minuti” (p. 174). Nell’impossibilità di cambiare una società ancora miope, pronta a giudicare e condannare, la protagonista può però decidere di cambiare la propria sorte, di riscrivere la fine fin troppo prevedibile della propria storia, di elaborare una strategia per la propria sopravvivenza. E di sopravvivere, anche se non sarà facile, e il dolore non finirà semplicemente allontanandosi dal luogo della tortura, le cicatrici non si rimargineranno solo con la distanza.

Ogni volta che ti picchio è un romanzo necessario per ricordarsi che la violenza domestica non è qualcosa che tocca sempre e solo ad altri, o in altre parti del mondo; che non bisogna necessariamente ingenue o insicure per finirci dentro; che non bastano la consapevolezza e la forza di volontà per uscirne: Non sono la fanciulla in pericolo. Non sono il ritratto della purezza verginale, la ragazza data a un uomo in un matrimonio combinato. Questo è il genere di cose che capita a donne così, donne indifese. Ma io non lo sono. Sono brusca, aspra, dura. [...] Sono l’anti-fragilità. Sono stata fatta per non spezzarmi. Questo è uno dei motivi per cui è più difficile parlare della violenza. (p. 201) Quello di Meena Kandasamy è un proclama urlato a gran voce, che vuole raggiungere un pubblico che sia il più ampio possibile e metterlo sull’avviso, renderlo accorto, spingerlo se possibile a cambiare le cose. Un proclama attualissimo, una rivendicazione, una protesta, a cui, proprio in questo momento storico, dovremmo con tanta più urgenza dare ascolto.