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Avvistato Alligatore nella palude del nord-est

Autore: Paola Jacobbi
Testata: Il Venerdì di Repubblica
Data: 6 novembre 2020

Un detective che agisce nell'ombra, che ama il blues e beve Calvados. Si muove nel Nord Italia, indaga casi che richiedono la massima discrezione e li risolve pure, ma senza mai impugnare un'arma. Ha il cuore spezzato e un grande desiderio di rivalsa, perché ha vissuto, ingiustamente, sette anni in carcere. Lui è l'Alligatore, personaggio protagonista di dieci romanzi di Massimo Carlotto (edizioni e/o), una celebrità nel mondo del “noir” italiano, fin da quando è uscito La verità dell'Alligatore, nel 1995. Eppure, finora, non era mai arrivato né al cinema né in tv. A rimediare ci ha pensato Domenico Procacci che, insieme a RaiFiction, ha prodotto una serie in quattro serate che sarà dal 18 novembre per intero su Raiplay e dal 25 ogni mercoledì su Rai 2. L'Alligatore è Matteo Martari, ex modello e attore veronese, una specie di Ethan Hawke stropicciato, i suoi “soci” Rossini e Max sono interpretati da Thomas Trabacchi e Gianluca Gobbi. Regista, insieme a Emanuele Caringi (hanno diretto due puntate a testa) e showrunner è Daniele Vicari, 53 anni, noto per film come Velocità massima, Diaz e il film per la tv Prima che la notte sul giornalista antimafia Pippo Fava.

Vicari, è la sua prima volta alle prese con la serialità.

«In passato mi avevano proposto diversi progetti ma ho sempre rifiutato. Il problema è che le serie sul mondo criminale, in genere, si prendono troppo sul serio. Ho sempre pensato che se noi guardiamo a quell'universo di gangster, assassini e spacciatori senza un po' di distacco e ironia, rimaniamo solo irretiti dalla suggestione del male. Invece, i romanzi di Carlotto non sono cosi; l'Alligatore è un antieroe, è pieno di contraddizioni e sfumature».

Una delle scelte cruciali per uno showrunner è azzeccare il protagonista.

«Ho fatto provini ad alcuni dei migliori attori italiani. Tra questi ho incontrato Matteo Martari che già conoscevo perché anni fa avremmo dovuto fare un film insieme .Volevo un attore laconico e molto fisico, alla Clint Eastwood. Soprattutto volevo un attore del Nord per essere il più possibile fedele a Carlotto».

Riferimenti cinematografici?

«La laguna veneta è un po' il nostro Mississippi, un ambiente con una composizione sociale molto varia, a causa dalla vicinanza con l'Est, una zona "blues" all'italiana. Ho contaminato Carlotto con tante cose: c'è un po' di vecchio cinema di genere italiano, un po' di hard boiled americano. Ho pensato al Cattivo tenente di Abel Ferrara e ho data al personaggio di Thomas Trabacchi i capelli di John Travolta in Pulp Fiction. Ma più di tutto ho pensato a Starsky & Hutch».

Starsky &Hutch? Un regista di cinema impegnato come lei?

«Io sono cresciuto in un paese di montagna, Collegiove, in provincia di Rieti, dove il cinema non c'è mai stato, quindi da piccolo guardavo solo la tv e, adoravo Starsky & Hutch. Erano buffi e simpatici. C'è una scena vista allora che mi è rimasta in mente per sempre».

Racconti.

«C'è una Ferrari parcheggiata davanti all'ufficio dei due. Starsky dice, “che bella, quanto vorrei averla” e Hutch gli risponde: “La gente passa la vita a desiderare delle cose senza fare mai niente per ottenerle”. Quella frase per me, da ragazzino, è stata molto importante».

Certo L'Alligatore è ben più cupo di Starsky e Hutch.

«II contesto lo è, lui si trova ad avere a che fare con fatti di violenza inaudita ma non perde mai la sua umanità né suoi principi».

E non smette di ascoltare il blues.

«Nei libri di Carlotto il blues è citato in continuazione perché in passato Alligatore è stato un cantante ma soprattutto perché interpreta i suoi stati d'animo. TehaTeardo (che firma la colonna sonora, ndr) è andato a pescare in un repertorio di musiche popolari americane cantate da musicisti di strada e raccolte a suo tempo dallo studioso Italiano Alessandro Portelli.Tutti i pezzi che ascolta Alligatore nella serie derivano da quell'archivio».

In questi mesi così strani per tutti, lei ha realizzato il film Il giorno e la notte, girato in “smart working”.

«Io sono stato male prima che scoppiasse la pandemia, mi ero ammalato sul set dell'Alligatore. Quando è arrivato il lockdown stavo finalmente bene e non me la sentivo di stare fermo. Così, con Andrea Porporati, ci siamo buttati: volevamo dimostrare che anche chiusi in casa possiamo fare cinema. Abbiamo fondato una società di produzione, coinvolto attori, scritto, girato e montato il film. Abbiamo anche realizzato una serie che racconta diverse storie di italiani rimasti bloccati all'estero durante il lockdown. Si intitola Aria e andrà in onda in tv. Quanta al film, è pronto ma non sappiamo quando potrà arrivare in sala».

Come sta vivendo questo momento di crisi per il cinema?

«Io credo che, al di la di strepiti e proteste, la situazione vada sfidata. Non possiamo aspettare che qualcuno risolva il problema, ciascuno di noi deve trovare delle soluzioni per continuare a fare cinema. È vitale che i set, come le fabbriche, restino aperti e che si continui a lavorare. Facciamoli, i nostri film. Poi sono sicuro che troveremo anche il modo per farli vedere e farli vivere al pubblico».