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Sacha Naspini: se ti viene il pallino di svegliare un gigante addormentato c’è poco da piangere se alla fine ci riesci

Autore: Stefano Iuliani
Testata: Spacebar
Data: 22 dicembre 2020
URL: http://www.spacebar.cat/societa/sacha-naspini-se-ti-viene-il-pallino-di-svegliare-un-gigante-addormentato-ce-poco-da-piangere-se-alla-fine-ci-riesci/

Ci sono periodi della vita in cui capita di non riuscire a trovare un buon libro da leggere. Molto spesso, però, capita che queste parentesi siano soltanto il prologo di una scoperta letteraria entusiasmante. È quello che ci è successo con il protagonista di questa intervista, uno degli scrittori italiani più illuminati (e illuminanti) dei giorni nostri: Sacha Naspini. Bando alle ciance e vediamo che cosa ha da dirci.

1) Hai fatto irruzione nella vita di Spacebar grazie al suggerimento letterario dell’unica libraia italiana di Barcellona (libreria Le Nuvole). Alla domanda “Che cosa mi consigli?”, lei ha risposto con un convinto Le Case del malcontento di Sacha Naspini. Non ti conoscevo. E ora ho voglia di leggere tutti i tuoi libri. Ecco, qual è la forza di questo testo secondo te?

Prima di tutto non posso non ringraziare la libraia. Tra l’altro la cosa mi tocca nel vivo, specie in questo periodo, dove i rapporti in presenza con le librerie accusano un’interruzione. Mi manca tanto quel pezzo del mio lavoro: lo scambio, il confronto virale, l’attivazione sovversiva delle idee… Sono i luoghi della formazione delle coscienze, del fermento; e come dice la mia compagna: di vera resistenza civile. Al momento opportuno sarebbe bello pianificare un incontro lì. Portare i rabbuiati di Maremma in Spagna e vedere che succede.

Per quanto riguarda Le Case del malcontento ho collezionato tante suggestioni. Assisto a questo viaggio. Quotidianamente ricevo messaggi su quel romanzo, ormai a quasi tre anni dall’uscita. Forse la cosa che funziona è il fatto di aver preso un borgo qualunque, con personaggi come simboli delle carature umane che si svelano a poco a poco nelle loro ombre, nei lampi di felicità. Banalmente: il piccolo che cerca di raccontare il grande. Per dire, trasportando Le Case in un quartiere di Roma, Manhattan o Parigi i tiranti emotivi probabilmente resterebbero gli stessi (ovviamente facendo un lavoro di equalizzazione sulle voci, sul contesto sociale). Una pulsazione significativa mi sembra questa: la primissima proposta di pubblicazione all’estero venne dalla Corea del Sud. Antropologicamente parliamo di Marte. Eppure. Mi scalda il cuore l’idea di aver toccato corde care a un immaginario universale.

2) Tornando al modo in cui ci siamo incontrati, nella prima domanda non ti ho detto che la libraia, per restringere il campo di ricerca, mi aveva prima chiesto: “Va bene, te lo consiglio un libro, ma puoi indicarmi qualche scrittore che ti piace alla follia?”. Le ho risposto dicendo che nel mio zaino non manca mai La Rayuela di Cortázar. Ecco, non conosco lo strano meccanismo mentale che sia scattato nella sua testa, ma tu che cosa ci vedi e a che cosa ti fa pensare questo paragone letterario?

Se c’è stato un clic da associazione d’impulso per me è oro, incasso e porto a casa. Puoi capirmi: impossibile che io ipotizzi di me stesso traiettorie spericolate con il lavoro di Cortázar. Se proprio devo inquadrare degli “ingredienti” forse direi la zona metafisica; e le conseguenti derive paradossali, dello scannafosso psicologico. In ogni caso: sono un amante della spudorata aderenza alla realtà, nonostante certi strumenti usati per raccontarla.

3) Tutti mi dicon Maremma, Maremma… / Ma a me mi pare una Maremma amara
L’uccello che ci va perde la penna / Io c’ho perduto una persona cara
Sia maledetta Maremma, Maremma / sia maledetta Maremma e chi l’ama
Sempre mi trema ‘l cor quando ci vai / Perché ho paura che non torni mai
(dal canto popolare Maremma Amara)
Nel libro c’è tanta Maremma, c’è tanta provincia italiana, anzi più che provincia andrebbe definita la “periferia della periferia”. Ma secondo te quali sono i motivi che fanno “tremare il cuore quando ci si va, perché si ha paura di non tornare più”?

Questa è una domanda bellissima, perché produce altre domande, non risposte – proprio quello che dovrebbero fare i libri, no? La Maremma è una terra che chiede tanto, ora come cent’anni fa. È stata il ring della mia infanzia, dei miei tredici anni; lo è adesso, dopo un po’ di mondo, dei miei quarantaquattro. Un luogo mostruoso, spettacolare. Continua a vivere di luce riflessa, certe velocità fanno fatica a integrarsi, in generale si corre sullo scarto del decennio, se non di più. Prima si moriva di malaria; oggi si crepa di stordimento e poca propensione all’ascolto delle complessità. La Maremma è ignorante, purtroppo. Se non stai attento ti mangia vivo, vai giù. Come succedeva ai mignattai delle acque marce: uscivano la mattina per prendere le sanguisughe nella palude bastarda e a volte non tornavano. Sparivano e basta, risucchiati dal fango. Forse è nata lì la faccenda di bestemmiare la “Maremma maiala” – o con le innumerevoli altre declinazioni del caso. Pensaci: in quale altro posto del mondo si offende la propria terra? È tua madre, ti ha generato. Qui accade, ad ogni “Maremma cane” si restituisce il segno di un luogo difficile, fuori e dentro. Se ne potrebbe parlare per ore. Tuttavia c’è un elettroshock: la Maremma ti scoppia in faccia se davvero rompi la corteccia. Apri la cotenna del cinghiale e ci trovi un cuore grande. Io sono stato definito da queste coordinate fondate sul contrasto potente. Me ne accorgo soprattutto quando mi trovo lontanissimo da casa; cammino a Los Angeles e mi vedo sul serio. E senti questa: d’un tratto rivendico quel sangue.

4) I personaggi che descrivi, e le loro vite, fanno parte di un mondo bizzarro, tra il dolce e l’amaro, tutti intrappolati in una sorta di gabbia mentale e geografica. Fanno tutti parte di una sorta di progetto diabolico di cui ognuno è vittima e carnefice al contempo. Lo odiano ed è come se tutti avessero il potere di farlo finire da un momento all’altro, ma non lo fanno perché in qualche modo non saprebbero farne a meno. Se non ho detto fesserie, com’è nata l’esigenza di raccontare questo mondo?

Se ne parlava un attimo fa: i conflitti di un luogo. La geografia esteriore marca la geografia interiore degli abitanti di Le Case (che esiste, nella realtà si chiama Roccatederighi, è il posto in cui ho trascorso i miei primi cinque anni di vita – è esattamente come nel libro: via di Mezzo, la torre dell’orologio, i vicoli, i massi, la casa dei nani…). Alla fine il paese è un mostro a tante teste, ognuna fa capo a un personaggio. Le Case respira, trema, impone. Insomma, vive, e lo fa secondo regole particolari. Ha il sapore di una trappola, come la stragrande maggioranza dei piccoli centri (ma anche dei quartieri delle grandi città, come dicevamo – o delle città stesse). L’innesco narrativo è semplice: nella tale immobilità del borgo un giorno arriva questo ragazzo, Samuele Radi, compaesano che per un po’ è stato nel mondo. Il suo ritorno solleva curiosità, sospetto. Ma soprattutto: attiva la scintilla di tante storie rimaste là, in una sorta di stallo. Con l’entrata in scena di Samuele (pagina 1) tante scacchiere si accendono. I segreti bussano dalle cantine, si alzano lamenti, vecchi spiriti di vendetta vengono evocati. Qualcosa comincia a muoversi; le vicende si intrecciano rovesciando prospettive, scoperchiando bestialità; in certi casi si verificano epiloghi su fatti seminati nel corso della Seconda Guerra… Da un certo punto in poi ci si trova nella stretta del diavolo: più cerchi di muoverti, più affondi – parlavamo dei mignattai risucchiati dal fango, poco fa. Le Case apre la bocca, vuole mangiare tutti, ma in realtà sono gli abitanti a mangiare sé stessi. La Maremma funziona (anche) così. Anzi, forse sono certe vocazioni dell’animo umano a viaggiare in quella direzione. In fondo lo spunto di una terra è solo un’occasione, un palcoscenico che conosco perché mi appartiene nel profondo. Raccontando Le Case racconto i contrasti, le gabbie mentali, nel tentativo di dare un nome a certe dinamiche. L’obiettivo, come sempre, è cercare di restituire un’algebra comune.

5) SPOILER: Restando lì, tra i personaggi, ho notato che l’immobilità delle loro vite stona con un’evoluzione interiore allucinante. Su tutti penso alla nana sordomuta, che poi riacquista l’udito e impara a scrivere e parlare, ma che in tutto il racconto proferisce soltanto una parola (tra l’altro per salvare il personaggio principale odiato da tutta la comunità). Quanto di te c’è in questa nana o è solo uno dei tanti tentacoli che ti legano al racconto?

Io mi nascondo in due personaggi: Samuele Radi, e nella nana sordomuta Piera Del Casino. Per quest’ultima è stato amore a prima vista. Piera riacquisisce la parola e l’udito, ma non lo dice a nessuno. Decide che data la sua condizione può usare questi due sensi come un’arma. Tutti la credono la creatura anormale di sempre; in realtà si trasforma in un’antenna, capta lo schifo del borgo. E ne scrive. Ma non si accontenta di questo: Piera Del Casino è un’autrice di fama internazionale di romanzi che firma sotto pseudonimo. Una sorta di Ferrane di Maremma. I suoi libri spopolano in tutto il mondo, e guarda un po’: parlano di un certo paesino arroccato sui colli dell’entroterra toscano. Là abitano personaggi strani, nome e cognome. Il paradosso è questo: a Le Case non ne sanno niente. Nessuno legge – al massimo ci si spinge a scorrere i risultati delle partite. Gli abitanti del paese sono sputtanati in tutte le lingue a loro insaputa, si stupiscono dei pellegrinaggi letterari da parte dei turisti che deridono tanta pochezza (pensa l’effetto che mi fa quando dei lettori mi inviano le foto dei loro sopralluoghi a Roccatederighi…). Nel gioco dei simboli, Piera Del Casino è senza dubbio la coscienza.

6) “Quello che pretendo da me, quando scrivo, è che il testo lasci un bel po’ di mazzate allo stomaco di chi legge. O almeno ci provo.”

Lo hai affermato in un’intervista per mangialibri.com. Devo dire che la conclusione del libro lo dimostra alla grande, con un colpo di scena che definirei assolutamente inaspettato e calzante. In che modo volevi dare delle mazzate allo stomaco del lettore in questo libro?

Sono andato a vedere, è un’intervista vecchia, di dodici anni fa, forse oggi mi esprimerei in un altro modo. In ogni caso sono sempre stato un fan di quei romanzi che rompono o rovesciano paradigmi; non aspetto altro che un autore o un’autrice mi spacchino l’osso del collo per farmi guardare le cose da una prospettiva diversa e poi lasciarmi là, appeso, senza la pagina delle soluzioni. Quello è un lavoro che devo fare io. Mettimi su un piano inclinato delle idee; di essere intrattenuto e basta non m’interessa. Dammi fastidio. Massacrami a volontà – naturalmente puoi farlo anche con una fiaba dolcissima. Mi riferisco a quel rumore di fondo che abita sotto l’inchiostro, dove a cercare bene si annida il gesto di un libro. Nelle Case del malcontento ci sono pavimenti (interiori e non) che si ribaltano; anzi, tutto un certo mondo d’un tratto viene riscritto. Molte maschere cadono miseramente. La corsa alla verità svela un nucleo che forse era bene lasciare nelle cantine di certi appartamenti. Se ti viene il pallino di svegliare un gigante addormentato c’è poco da piangere se alla fine ci riesci.

7) Qui a Spacebar si parla molto di musica. Tra le tue opere c’è anche Noir Désir – Né vincitori né vinti, una biografia sulla band francese. Che cosa ti lega a questo gruppo e qual è il messaggio che intendevi trasmettere? Infine, quanto Bertrand Cantat c’è in Samuele Radi di Le case del malcontento?

Noir Désir è una pubblicazione di dieci anni fa. Luigi Bernardi aveva da poco lanciato Rumore Bianco, nuova collana del Gruppo Perdisa. L’idea era di provare a scattare una grande fotografia del nostro tempo mettendo insieme biografie di personaggi anche lontanissimi tra loro, ma che sapessero in qualche modo indicare facce nascoste, complesse o scomode della trasformazione. L’esperimento si è fermato presto, purtroppo, i titoli sono solo tre: il mio, la vera storia di Giosuè Rizzi e il ritratto di Izzo scritto da Stefania Nardini. Ricordo che Bernardi aveva in mente un testo su Zidane per continuare quell’affresco… Il libro nacque quasi per gioco: pubblicavo spesso canzoni di quella band sui social. Un giorno arrivò una mail: “Naspini, ti andrebbe di scrivere un libro sui Noir Désir?”. Ad oggi, la prima e unica pubblicazione nata su commissione. Tipo. Non mi dispiaceva l’idea di provare a raccontare la storia di un gruppo con un linguaggio da bar, come se mi trovassi al banco con un amico. Nelle prime pagine racconto appunto come sono entrato in contatto con quegli album: una tdk lasciata da una turista francese quando avevo intorno ai quattordici anni. Fu una bella immersione; affrontando la storia dei Noir Dez andavo di album in album lanciandomi in avventate descrizioni dei pezzi, anche questa era una curiosità: è possibile raccontare la musica? Restituire una particella di quella dimensione? Intanto percorrevo la grande ascesa di quei quattro ragazzi partiti da una cantina di Bordeaux. E pensavo a come affrontare l’improvvisa distruzione totale: i fatti di Vilnius. Un terremoto improvviso. Ma impossibile evitare quella parte del racconto. Il grande viaggio andava a impattare in una tragedia che dopo tante chitarre distorte lasciava un boato di silenzio. Era un esercizio interiore particolare esaltare la musica di quella band e insieme fare i conti con l’immagine di Marie Trintignant. Credo che nel cuore di tutti accada una specie di elettroshock pensando a quella vicenda.

Nelle Case del malcontento il mio Samuele Radi si trova a fare un calcolo su se stesso molto vicino a quello che è toccato anni fa a Bertrand Cantat.

8) Se non vado errato, sei anche musicista. Quali sono i movimenti musicali che più ti hanno influenzato e influenzano dal punto di vista musicale e letterario?

Musicista è una parola grossa. Era il ’90, avevo quattordici anni, e come spesso accade a quell’età un giorno lo dissi insieme a un amico: «Facciamo un gruppo?». Parole cruciali, specie se pronunciate nei luoghi di periferia: all’improvviso hai un progetto. Stai cercando la tua identità ed ecco che ti ritrovi in mano uno strumento. Già mi cimentavo con le prime novelle. L’idea di mettere delle parole su una progressione armonica mi esaltava, non pensavo ad altro. Avevo un quaderno per i racconti e uno per i testi. È andata avanti così per almeno quindici anni; insieme c’erano gli studi e tutto il resto. Con la musica ho fatto tante esperienze, ci sono state perfino delle soddisfazioni, ma non ho mai avuto l’obiettivo di calcare un palco per professione. Abitavo quel mondo e non capivo se ero un ospite gradito o no. Finché è cominciato a starmi stretto, scrivere testi non mi bastava più. Solo dopo ho capito il senso di quel dono. Forse anch’io posso dire che la musica mi ha salvato la vita: mi ha portato dai libri. Un’anticamera cominciata proprio quel giorno là, quando con il mio amico Davide camminavamo verso il liceo, a Grosseto, e d’un tratto l’illuminazione: «Facciamo un gruppo?». Erano gli anni del grunge, quell’ondata mostruosa. Ma in generale era il panorama mondiale ad essere infiammato, non c’era settimana che non uscisse una bomba di disco, dal metal estremo all’elettronica agli U2 di Achtung Baby (lo Zoo Tv Tour fu un’esperienza, al Bentegodi di Verona faceva un caldo atroce e c’era questa nuova band come spalla, in pochi ne avevano sentito parlare, presentava il suo album d’esordio: Ten).

9) Se dovessi scegliere la colonna sonora di Le Case del malcontento, quali band/artisti includeresti?

Non. Ne. Ho. Idea.

(Tra gli album che vengono associati al libro spesso c’è Non al denaro non all’amore né al cielo.)

10) A proposito di colonne sonore, pare sia in arrivo la trasposizione cinematografica del libro (serie TV). Quando andrà in onda e che cosa ci puoi svelare al riguardo?

I diritti del romanzo sono stati acquistati dalla Jean Vigo Italia, attualmente siamo in fase di sviluppo. Ho partecipato attivamente alla stesura dei fondamentali (soggetto di serie, soggetti di puntata, struttura…). Fino a gennaio-febbraio stavamo tenendo un bel passo, poi è arrivato il Covid-19. Una sospensione dannosa, che ha rallentato e rallenta molto, su tutti i fronti. Oltre a Le Case del malcontento nelle mani dei produttori ci sono un’altra serie (pensata subito per le schermo, senza partire da un romanzo) e un paio di sceneggiature per film. È in arrivo anche un videogioco interattivo, del tutto interpretato da attori in carne e ossa.

11) Uno dei pochi luoghi di incontro del libro è (come in tutti i posti di provincia) il bar delle Due Porte. A me ha ricordato il Double R Diner di Twin Peaks. Ecco, la serie TV sarà un po’ simile a Twin Peaks? Se la risposta è no, riusciresti a definire un parallelismo con la serialità in genere?

Twin Peaks è stato uno dei primi titoli citati per alcune linee di suggestione – l’incursione in una realtà chiusa, dal perimetro tracciato (anzi, sfumato…); la parola data al mondo onirico, o del simbolo profondo e condiviso. La faccenda che ci ha subito messo alla prova è stata questa: come restituire a schermo le complessità di un romanzo corale senza scadere nel banale o già visto? All’inizio abbiamo preso in considerazione perfino la traccia antologica: ogni puntata era la storia di un personaggio, il quale passava il testimone a quello dopo e così via. Le Case del malcontento è costruito su una linea orizzontale (quella di Samuele Radi) con spaccati verticali sulle vicende dei personaggi, tutti connessi. Alla fine è stata individuata una soluzione, a mio avviso vincente e al passo con gli strumenti e le velocità che oggi sono a disposizione. Posso dire solo questo: non linee narrative, ma temporali. In ogni episodio ci sono almeno tre twist, e svelamenti che vanno oltre il romanzo.

12) Come stai vivendo questo momento delicato per tutta la società e in che modo credi si riverserà nel mondo letterario dal punto di vista dei contenuti? Ci sarà un prima e dopo il coronavirus anche nella letteratura?

Impossibile che questa situazione non lasci una traccia. Sì, ci sarà un prima e un dopo – si impone già adesso se vuoi pensare una storia ambientata ai nostri giorni. Io per il momento sto lontano dallo scattare fotografie di questo momento, siamo ancora coinvolti, non sento di avere la distanza giusta per poterne parlare, soprattutto in termini di residui emotivi. Ma mi leggo, segno i piccoli crolli, mi lascio trasportare dalla sospensione. Ci sono insonnie strane, per esempio, e il giro dei pensieri ne risente, la routine può risultare schiacciante. La scrittura si è rivelata uno strumento molto utile per muoversi da fermo e sentire la giornata comunque esaudita. Però i viaggi; quelli mi mancano davvero. Negli ultimi anni l’attività di promozione mi ha portato in molti luoghi, ma a cadenza di due-tre mesi ho sempre staccato con un volo che mi portasse altrove. Ci tengo a nutrire la scrittura con quel tipo di benzina.

13) Se fossi la libraia di cui sopra, con quale suggerimento letterario/musicale ci lasceresti?

(Libraia che abbraccio anche in chiusura.)

Il suggerimento letterario: Il fratello buono, di Chris Offutt.

Quello musicale (ma tra cinque minuti te ne direi sicuramente un altro): l’ultimo degli Awolnation non è bello?

Intervista di Stefano Iuliani a Sacha Naspini