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Essere off dal Salone, essere in letteratura

Autore: Anna Giurickovic Dato
Testata: Treccani
Data: 21 giugno 2022
URL: https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/percorsi/percorsi_384.html

D’altra parte, non sarebbe andata diversamente per Carla Longhi, l’amabile, tormentata protagonista di QUCHI. Quello che ho ingoiato. Carla, che non si sente né giovane, né bella, né libera e neanche eroica, e che, per l’ennesima volta, si chiede: cosa posso fare, io, in questo mondo? Qualcosa, in realtà, ha fatto: ha pubblicato alcuni romanzi di cui non si è accorto nessuno, ha raccolto molti rifiuti, ha fallito in molte carriere, e poi ha inseguito la propria «futura infelicità americana». A Los Angeles, come ogni altra volta, Carla ha provato ancora a dimostrare di essere all’altezza di un lavoro, uno qualsiasi. Cura meticolosamente l’annuncio e la camera in affitto, l’acqua minerale gratis nel frigo, i profumini in bagno, persino una scatola di assorbenti interni, lustra il pavimento, lucida lo specchio, acquista i prodotti migliori, dall’anticalcare all’antiruggine, dall’ammoniaca alla cera per il parquet, applica la teoria dei giochi per indovinare il contenuto della recensione ricevuta dagli ospiti e regolarsi di conseguenza. Eppure, ancora una volta, si trova a fallire o temere di fallire (poco le importa della differenza): «Il telefono s’illumina e vibra nel buio della sua stanza. Phyllida wrote you a review. Cosa vuole quella puttana? – si chiede subito Carla, spazzando via anni di studi femministi. Puttana, sì. Anzi dentro di sé, ama dire da un po’ di tempo: quella gran troia».

(...)

Nel proprio romanzo, Caterina Venturini racconta di tutto quanto Carla, nella vita, ha dovuto ingoiare. QUCHI, è ricco sotto più profili, perché avvincente, perché sperimentale, perché gioca con la lingua, con la struttura, con i punti di vista e le voci narranti: salta dalla prima persona alla terza, senza avvertimenti, comincia lo scambio incrociato tra protagoniste e coscienze, tra scrittrice, agente e psicanalista, in una continua lotta tra l’essere e il divenire. Il linguaggio è sia lo strumento, finemente levigato, con cui Venturini trascina il lettore, sia il trauma principale della protagonista che dà ogni colpa al bilinguismo, all’ambiguità delle parole, all’incontro mancato – direbbe Lacan – tra l’Uno e l’Altro. Il linguaggio è irriducibile al senso e Venturini osserva di continuo, attraverso la psicologia di Carla, questo doloroso distacco dal reale: Carla è straniera ovunque, dove è arrivata e dove non è tornata; è partita perché il figlio non dovesse essere il porta-parola della propria madre, ma si dispera quando scopre il tradimento che si cela dietro a una cattiva traduzione; Carla sa quanto sia necessario abitare la lingua dell’altro per conquistarlo, ma sa anche che non può fare altro che partire dall’italiano – e dalla scrittura – per ricucire le sue origini, i suoi lembi spezzati. Accade raramente che il significante agguanti il significato, ed è una scoperta che emoziona e rincuora: «Provo un’eccitazione improvvisa che somiglia alla commozione, mi succede ogni volta che le parole coincidono integralmente con i fatti». Per il resto del tempo è una lingua-ombra che ci abita e ci divide.

«“Io so perché non parlate. Voi siete ombre” What? chiede qualcuno. “You are shadows”, ripete lei. Io smetto di guardarla. Siamo ombre, tutti quanti. Privati della vostra lingua, di una comunità, dei vostri affetti, delle famiglie d’origine… che altro potevamo essere? Non importano i motivi diversi per cui siamo finiti lì dentro».