"De his qui per scelera ad principatum pervenere" (Niccolò Machiavelli, Il Principe)
Arrivederci amore, ciao di Massimo Carlotto (Padova, 1956) potrebbe definirsi un perfetto manuale della carogna e dell'arrampicatore sociale senza scrupoli, un vademecum dovizioso e preciso, metodico ed esauriente, da consultare con sistematica diligenza. Insomma, una sorta di De Principatibus per i filibustieri della globalizzazione.
È, infatti, in primo luogo la storia incalzante di una canaglia e di un traditore, una crime-novel asciutta e stringata, assolutamente priva di retorica; ma al tempo stesso è un trattato rigoroso, preciso, che scandisce, quasi al ritmo ossessivo di un metronomo del male, le tappe di una carriera scellerata, di una fortuna costruita delitto su delitto in un crescendo di orrore e perfidia.
L'ascesa (di solito seguita dalla caduta, che invece qui non c'è) di un self-made-man spregiudicato e perfino amorale, pronto a qualsiasi compromesso o turpitudine, è un topos di tanta letteratura, a partire almeno dal Settecento. Si pensi, ad esempio, a Barry Lyndon di Thackeray o a Il rosso e il nero di Stendhal o a Piccolo Cesare di Burnett. Ma il genere e il modello tradizionali conservavano sempre un elemento edificante o facevano trapelare l'intervento di una Nemesi consolatoria e riparatrice, per cui le malefatte e le ribalderie si ritorcevano infine contro chi le aveva perpetrate, dando luogo a un risarcimento, ancorché tardivo e parziale.
Nella variante di Carlotto non accade nulla di tutto questo: il cattivo trionfa senza pagare il fio e l'happy end corona le sue nefandezze quasi come un giusto premio, un doveroso riconoscimento ai suoi sforzi e alla sua perseveranza.
L'indignazione dell'autore è trattenuta, implicita, come certe lacrime ricacciate indietro per pudore. Ma affiora in certe ironie sottili e caustiche o nell'acribia dei dettagli, apparentemente asettica e distaccata, con cui vengono descritti crimini, violenze, sevizie. Sembra, infatti, priva di raccapriccio questa copiosità di annotazioni tecniche, di informazioni, di ragguagli, e invece lascia intravedere una pietà inespressa, sottaciuta, che il lettore deve ricavare da sé a partire, ad esempio, da un'informazione anagrafica sulle vittime. Le quali, en passant, senza troppe sottolineature, sono presentate come individui con una loro storia - magari uguale a tante altre, eppure unica e irripetibile - che hanno famiglia e affetti a cui la morte li strappa con feroce indifferenza.
Il protagonista di Arrivederci amore, ciao è un fuggiasco. Il suo stesso nome - Pellegrini - ne mette in risalto il carattere erratico. Per tutta la prima parte del libro, egli scappa (e il lettore deve corrergli dietro, al passo di una prosa rapida e concisa) oppure deve evadere da situazioni che frenano il suo distruttivo impulso vitale.
Anche la figura del fuggitivo è un topos. Lo stesso Carlotto (per ragioni biografiche sulle quali, da proustiano antisaintbeuveano, non mi soffermo) vi ha fatto ricorso nel suo romanzo d'esordio. Nell'uomo inseguito da un'ingiusta Giustizia - da I Miserabili a una celebre serie di telefilm americani degli anni Sessanta in cui un medico è accusato erroneamente di uxoricidio - si è voluto esprimere emblematicamente la condizione del perseguitato, del reietto, del capro espiatorio.
Se la cultura popolare e di massa ha voluto soprattutto sottolineare la condizione sociale del diseredato, nella figura biblica di Giona troviamo invece un uomo che scappa dall'orrore stesso del suo inenarrabile misfatto e che infine trova negli abissi dell'anima la sua redenzione.
Carlotto stavolta rovescia entrambi i paradigmi: le forze dell'ordine restano inique e miopi - pur senza l'ostinazione persecutrice del commissario Javert di Victor Hugo - ma colui che braccano porta davvero con sé il viatico della colpa, e il suo percorso verso la salvezza non è un itinerario catartico bensì una voluttuosa discesa negli inferi che non porta ad alcun riscatto. Per cui la verità che infine trionfa, anziché scagionare il fuggiasco, ne dimostra ad abundantiam la responsabilità morale e penale, poiché egli strada facendo si è macchiato di altri delitti sempre più orrendi che si sono aggiunti a quello originario, venendo a costituire un terrificante curriculum. Non parabola, quindi, bensì progressus ad infinitum, scalata senza precipizio verso un Male assoluto.
Il ricercato è un uomo (se questo è un uomo) che cerca a sua volta la propria vocazione e la scopre nel delitto, nell'esercizio di una cattiveria non sempre e non solo utilitaristica, ma praticata per diletto, per talento, attitudine, inclinazione. Un convertito senza pentimento, senza illuminazione, e anzi folgorato su una via di Damasco all'incontrario che gli indica, con l'abiura degli ipocriti miti giovanili, la perversa via del successo e dell'affermazione di se stesso in un mondo in cui il male è non solo arendtianamente banale ma perfino normale.
In questo senso Arrivederci amore, ciao non è soltanto un efficacissimo noir, ma anche un racconto filosofico che ha per tema la responsabilità morale e il libero arbitrio: una sorta di anti-Candido in cui il viaggio iniziatico dell'anti-eroe si compie tutto sotto il marchio - o meglio, la macchia - dell'infamia e della malvagità.
Giorgio Pellegrini, bergamasco, classe 1957, è uno dei tanti miles gloriosus che negli anni di piombo si era messo in testa il ghiribizzo di fare la rivoluzione e poi ha scoperto (come il protagonista dell'Allonsanfan dei Taviani, ma senza i travagli esistenziali di Imbriani/Mastroianni) di non credere più in ideali sbandierati solo per noia. Costretto a espatriare in seguito alla morte di un metronotte in un attentato dinamitardo, si rifugia in Centroamerica insieme a un amico e decide di fare l'eroe dei due mondi. Solo che la guerriglia è molto più dura e pericolosa di quanto non si pensasse nelle oziose chiacchierate al bar o in certe fanfaronesche assemblee.
Pellegrini dunque scopre che la sua vera vocazione è un'altra: mentire, costruirsi identità diverse, creare un alibi alla propria vigliaccheria tramite il travestimento, la continua falsificazione di se stesso. E soprattutto tradire (ma, paradossalmente, col suo animo nero da Jago, si sente turlupinato e defraudato quando scopre che le caramelle Otello della sua infanzia - divorate leggendo Salgari, come Julien Sorel leggeva Napoleone - non hanno più lo stesso sapore di una volta).
Quando gli ordinano di uccidere il suo compagno di fuga, divenuto ormai inaffidabile, si limita ad annuire e ad eseguire senza alcuna remora morale, anzi scoprendo l'eccitazione dell'assassinio, "il senso di meraviglia e di potere che si prova nel togliere la vita a un uomo tirando il grilletto".
Ma un conto è sparare proditoriamente alla nuca di una vittima inerme, e un altro e rischiare davvero la pelle in battaglia, pur nelle retrovie. Pellegrini allora decide di fuggire dall'inferno della giungla e tenta di riciclarsi facendo il gigolò con donne non più giovanissime, desiderose d'affetto, anche finto, e quindi estremamente vulnerabili. La scelta non è solo dettata da ragioni utilitaristiche: nella sua misoginia (che è soprattutto paura della donna autonoma) si scorge pure una componente di sadica gerontofilia che in seguito lo porterà a divenire l'amante-aguzzino della sfiorita vedova di un boss.
Questo improvvisarsi uomo da marciapiede per signore insoddisfatte è però un tirare a campare senza prospettive, un espediente per sbarcare il lunario in una prima fase del suo truce tirocinio. La svolta si presenta con l'opportunità di entrare nel "mercato delle infamità". È un ricatto molto facile: la sua impunità in cambio del silenzio. Da qualche parte, nell'ambiente pressappochista e parolaio della lotta armata, c'è sempre un irriducibile pronto ad accollarsi tutti i peccati del movimento rivoluzionario in nome della causa. Il prezzo da pagare è appena un po' di Purgatorio, un breve periodo di carcere, a San Vittore, proficuamente occupato facendo la spia e inserendosi con discrezione negli affari dei poliziotti corrotti.
Ma la riacquistata libertà serve a ben poco senza una lira in tasca. Pellegrini si rende conto di essere un marginale e vuole a tutti costi sottrarsi al letamaio della sua condizione, divenire rispettabile, vincente: "Quando vivevo in famiglia, prima di entrare nel movimento e farmi fottere il cervello, facevo parte della Bergamo bene. Ripensando a quanto avevo disprezzato e deriso quell'ambiente, mi veniva voglia di spaccarmi la testa contro il muro". L'unico modo per far soldi subito è darsi da fare con la malavita, che però è anche la via più veloce per tornare in carcere. Ma ecco la rivelazione, la terra promessa: il Veneto, frontiera selvaggia per pionieri senza scrupoli, eldorado dei vincenti, porta d'oriente da cui entra il flusso dei disperati, della manodopera clandestina da sfruttare nel nuovo sviluppo a-normale, senza regole, senza tasse, senza legge. Nell'espansione incontrollabile di un'economia semisommersa, una ricchezza di dubbie origini trova mille modi per riciclarsi con candeggi malcelati che in fondo sono un segreto di Pulcinella nel bengodi del così-fan-tutti e dei lap-dance dove nessuno è davvero innocente: "A parte gli ingenui e gli idioti, ho sempre pensato che quella gente non vedesse l'ora di farsi corrompere. La trappola delle ballerine e della cocaina rappresentava solo l'occasione per fare il salto e godersi la vita".
Il fuggiasco ha finalmente trovato casa, diventa sedentario, comincia a tesaurizzare e fa progetti per il futuro.
Il punto di forza di Pellegrini è la coscienza della propria abiezione unita a una totale mancanza di vergogna e di senso di colpa. Egli non si fa nessuna illusione sul suo conto, né cerca scuse o attenuanti. Sa di essere uno "schifoso", ma non prova ribrezzo o pietà per se stesso. Anzi, riflette sulla sua condizione e ne conclude che esercitare un potere sui deboli e in particolare sulle donne ricattabili è per lui una ragione di sopravvivenza e un modo di sopportare il proprio passato.
Il piacere di essere una "carogna" coincide con quello di essere un "vincente". E poiché il successo non può esistere che sotto il segno del male, ci si può fidare solo di chi è "marcio": tutti gli altri sono dei perdenti e quindi soggetti inaffidabili da cui è meglio stare alla larga, proprio come ci si allontana dal relitto che affonda per non essere risucchiati dal suo gorgo. Stabilita questa regola, questa linea di condotta, si tratta solo di perseguirla con costanza e con metodo. Se vincere è l'unico valore, le uniche azioni riprovevoli sono quelle che mettono a repentaglio la carriera (che - come in un film di Jan Egleson - deve essere sospinta e sostenuta "molto disonestamente" con la semplice arte di Caino). Quando compie una mossa sbagliata, Pellegrini raccomanda a se stesso di essere in futuro meno avventato.
Egli è infatti un uomo accorto costantemente impegnato nella costruzione del proprio successo. I suoi buoni propositi, ovviamente, sono sempre dei cattivi pensieri, e l'ascesa del social climber è inversamente proporzionale alla sua degradazione morale.
Tuttavia, Pellegrini opera in un ambiente come il rampante nord-est in cui l'etica del lavoro ha trovato perfetta applicazione nel crimine (e viceversa) e si è stabilita una simmetrica sinergia catto-calvinista (e machiavellica) per cui tutto è perdonabile se fatto per i soldi, poiché il fine giustifica comunque i mezzi.
Per quanto egli si senta un "diverso", è dunque un integrato, un omologato che ha scelto i valori e i comportamenti dominanti portandoli alle loro più radicali conseguenze. La differenza è solo quantitativa: Pellegrini è sì un mostro, ma in un mondo orribile e teratogeno dove un'insaziabile "fame di soldi" (che ha come pendant la volgare bulimia di pescecani onnivori con "arie da gourmet") ha reso lecito ogni delitto.
Nel suo viscerale razzismo, Pellegrini disprezza la teppaglia meridionale e gli immigrati stranieri, anche quando sono suoi soci e assumono comportamenti analoghi ai suoi. Pur considerando l'omicidio una sensazione piacevole e "appagante", dimostra il suo livore nei confronti dei terroristi algerini definendoli "fanatici, abituati a sgozzare donne e bambini".
L'altra società della manovalanza criminale e clandestina - quella sempre ghettizzata, nonostante la sua centralità in un degenerato sistema produttivo - gli fa orrore e se ne vuole distinguere, benché sia costretto a bazzicarla per i suoi loschi affari.
Egli, infatti, aspira soprattutto alla rispettabilità: cambia look e frequenta un centro di bellezza, come se volesse nascondere l'orrore che si porta dentro. Teme soltanto la solitudine. Vuole frequentare la gente normale, invidia chi ha avuto un'esistenza ordinaria, scontata. Comincia ad apprezzare cose che gli erano sempre state indifferenti: si reca al cinema, ascolta musica, vuole un rapporto duraturo, una fidanzata perbene con la quale mettere su casa e famiglia, come un qualsiasi bravo borghese, dopo un bel matrimonio in chiesa, con tutti i crismi: "E non avremmo mancato a un solo incontro del corso prematrimoniale. La nostra sarebbe stata un'unione benedetta. E assolta da tutti i peccati".
Meglio che le indulgenze di Leone X, il potere dei soldi della "locomotiva" nordista (alimentata anche dal propellente del lavoro nero, dell'evasione fiscale e delle nuove mafie slave) è tale da mondare ogni nefandezza per il fatto stesso di elevare la nefandezza a sistema di vita, a criterio di giudizio di ogni aspetto dell'esistenza.
E mentre la nuova criminalità legata a filo doppio alla new economy accantona spietatamente l'etica ipocrita della vecchia mala, la nuova politica, vera e propria continuazione legalizzata del crimine, oltre a soppiantare le ideologie, archivia pure ogni illusione sul bene collettivo. Come il delitto, anche la politica è solo un mezzo per raggiungere scopi privati e in gran parte illeciti.
Muoversi con agilità in questo mondo di arrivisti non sarebbe difficile per chi si è sbarazzato della zavorra della coscienza. Sennonché anche questo mondo cinico ha i suoi pregiudizi, le sue false coscienze: il denaro è comunque sacro, quale che sia la sua provenienza, però "non deve puzzare di malaffare", e non perché il malaffare sia più deprecabile di un qualsiasi altro affare, ma perché le convezioni richiedono che tutto sembri pulito, impeccabile. Nella sua cruenta lotta per farsi strada, Pellegrini ha finito per impregnarsi di una puzza di carogna che nessun profumo, per quanto costoso, può eliminare. Il passato ritorna sempre a compromettere la sua stabilità di vincente, come una specie di vortice di fango che lo risucchia e lo trascina nuovamente in antichi inferni. Pellegrini si ribella all'affronto di questo destino che pensa di non meritare dopo tanto lavoro e tanti sacrifici. E soprattutto non tollera di essere "in balìa degli eventi". Come ogni uomo d'affari, non sopporta di essere sottomesso ai capricci del mercato. Da avventuriero cesareborgesco vuole domare la fortuna ed essere padrone della propria sorte.
Ma, quando infine sarà costretto a sbarazzarsi di una moglie troppo curiosa e moralista che rischiava di compromettere tutta la sua imperiosa escalation, egli capisce di essersi finalmente emancipato dalla necessità gladiatoria di spargere morte intorno a sé per vivere vincendo: "E non avrei più ucciso nessuno. Non ne avevo più bisogno. Ero riuscito finalmente a recidere ogni legame con il passato".
È stato definitivamente e totalmente riabilitato, ripulito, riciclato. Ora è un "candido", un cittadino irreprensibile in un sistema che non tollera la diversità. Divenendo un Barbablù si è infatti sbarazzato della scomoda utopia di una normalità perbene. Ora non è più un burattino nelle mani del Fato, un eterno Pinocchio costretto a mentire e a fuggire da se stesso: si è trasformato in un perfetto uomo nuovo di un mondo nuovo che ha cancellato la memoria dei suoi misfatti, di un neocapitalismo corsaro che è disposto a concedere a tutti la sanatoria morale, purché la slot machine non si fermi mai.
Narrato in prima persona, ma con una sincerità così cruda e respingente da rendere impossibile ogni coinvolgimento empatico del lettore, Arrivederci amore, ciao è un diario al tempo stesso laconico ed esplicito. Lo stile prosciugato e icastico, frammentato da una paratassi che assume quasi la cadenza onomatopeica di un crepitio di mitraglia, persegue una dura chiarezza aliena da ogni eufemismo. Carlotto, con questo suo "piombo e sangue" passato attraverso Sergio Leone, ma senza intenti parodistici, imprime una svolta al suo fortunato filone dell'Alligatore e in generale a tutta la consolatoria e caricaturale narrativa poliziesca italiana, ormai irredimibilmente ammorbata di camillerismo.
Ma forse l'unico limite di questo romanzo antiretorico e antiletterario sta proprio nel non aver sviluppato a sufficienza l'umorismo macabro implicito nella sua chiave grottesca e nei suoi realistici paradossi.
La prosa - a tratti scientifica, da saggio socioeconomico - tende invece a una desertificazione sintattica e lessicale, a una verbalizzazione quasi burocratica, ma non priva di bagliori sulfurei, che dà al lettore un disperato senso di aridità. Che, a ben vedere, è soprattutto sete di giustizia, in un Paese come il nostro in cui troppi segreti e troppi orrori sono stati seppelliti negli oscuri archivi dei Tribunali e del Palazzo.