Lunico scrittore buono è quello morto
Autore: Michele Lupo
Testata: Il paradiso degli orchi
Data: 26 gennaio 2012
Un divertissment può aspirare a essere qualcosa di più dell’entartainment? Volando basso, ci si può sbellicare dalle risa e nel frattempo farsi venire qualche idea riguardo alla strana umanità condannata da demoni discordi all’esercizio (talora del tutto immaginario) della scrittura? Magari approfittare per rivedere un po’ di aberrazioni in corso trasformate in abitudini ormai considerate normali? E rivederle per es. con un ceffone assestato a mestiere? Provate a leggere questo libro di Marco Rossari e ditemi: non lo fareste, nel caso pur impossibile foste Tolstoj, costretto a vedersela con un paio di esemplari tipici dell’odierna società della comunicazione che fagocita e tira verso le sabbie mobili della stupidità anche un capolavoro della scrittura (che - parrà curioso solo agli incauti - con la comunicazione niente ha da spartire)? Non lo sgancereste un bel ceffone, molto espressivo, foste l’autore della Sonata a Kreutzer, se vi trattassero come una cretinetta che ha firmato l’ennesimo repertorio di ricette, come il giornalista cerchiobottista cui hanno attrezzato un romanzaccio sulle comode scrivanie di una major milanese, come il rocker che è un pianto come musicista e un disastro ambientale come scrittore? Immaginatevelo il buon vecchio Lev Nikolaevič, invitato a Roma in una radio per parlare del suo romanzo, accolto da una sciamannata che fra le altre cose gli domanda cosa sta leggendo in questo periodo e quando sente rispondersi “La Bibbia”, gli fa “E com’è?”, e poi deve vedersela, il vecchio russo, con il garrulo conduttore e gli ascoltatori che fanno a gara a chi gli pone la domanda più idiota…
Ma se Tolstoj passa una brutta giornata, pure Shakespeare deve vedersela con un mediocre tutore dell’idiozia, un giudice, che ha deciso di condannarlo per plagio e diffamazione, avendo il grandissimo inglese rubato le sue storie a destra e a manca, con l’aggravante, da lui ingenuamente pensata come sola, onorevole discolpa, di “averci messo la poesia”…
Rossari racconta storie così. Brevissime, a volte ridotte a fulminanti battute, a scambi o pensieri non solo di scrittori giganteschi ma di poveri, comici, disgraziati scriventi… Se ai grandi risparmia le reazioni estreme vagheggiate dal comune lettore, dei restanti colleziona immagini definitive. “C’era uno scrittore che aveva letto un solo libro, il suo. E gli era bastato”. E ce n’era un altro “che considerava la letteratura finita, anche perché non leggeva mai un libro.”
Le vicende umane e professionali degli scrittori – di quelli veri e di quelli farlocchi - possono essere tragicomiche, come quelle di chiunque altro, ma godono, si fa per dire, di una peculiare caratteristica: sembrano poggiare sul nulla, non hanno appoggi sicuri, il mestiere in sé può non sembrare un mestiere, non v’è certezza, come dire, statutaria, figuriamoci ontologica; è un’avventura destinata per lo più alla sconfitta, e in nessun altro caso la disfatta è spietata quanto in questo eterno Purgatorio sospeso fra la gloria e l’abisso. Nessuno - è noto - perdona a uno scrittore di non esserlo compiutamente… Epperò, cos’è quella mancanza? che vuol dire? non finire un romanzo, non pubblicarlo, non venderlo? o semplicemente non essere cacato da nessuno - nemmeno dai propri amici? Rossari sa che parlare di scrittori non è come parlare di ingegneri. O, ancor meno, di farmacisti. Ché poi la natura precaria degli scrittori dipende anche dai lettori (e mica sempre con la testa a posto pure loro, a cominciare dalle lettrici che si aspettano di essere scopate a sangue da un ficaccio col proprio nome stampato da qualche parte), dagli editori e via dicendo. Tutto questo complica la faccenda, già poco limpida di suo… Metti a scuola, che ci hanno raccontato di una certa tradizione romantica, che ci sarebbe come “un sentire” dello scrittore… Il narratore di Rossari sa per esempio di uno scrittore isolato in uno sperduto villaggio del cosiddetto Terzo mondo: be’, costui non aveva una penna né un foglio, forse nemmeno una lingua. Così, “se ne stava lì, seduto su una roccia, a contemplare il creato. Eppure era uno scrittore”. Umanità dalle strane caratteristiche, non c’è che dire. E c’era quell’altro – ancora - che “stroncava montagne e partoriva topolini”.
La parodia, modalità stilistica che oggi non gode di grandi apprezzamenti da parte della critica, salvo dimenticare che l’ottanta per cento dei romanzi italiani in circolazione sono involontariamente parodistici, nel libro di Rossari mostra come, nelle mani giuste, possa “dire” senza parere cose mica così frivoli. Non so se l’autore ha qualcosa in comune con lo scrittore-dandy cui l’editore che lo scopre suggerisce di scrivere aforismi, più che romanzi, perché ha un gran talento nello scatto, nella “definizione fulminante, nella battuta salace”. Non ho letto gli altri suoi libri. Certo, se Wilde non ebbe pari nel “paradosso spiazzante”, Rossari (fra l’altro, di questo ho contezza reiterata, ottimo traduttore) non scherza quanto a beffarda lapidarietà. Aspiranti o sfigati scrittori sappiatelo: ce n’era uno “che decise di vivere recluso e non pubblicare più. Nessuno venne a cercarlo”.