Marco Buratti l'Alligatore, l'investigatore creato dalla penna nerissima e fortunata di Massimo Carlotto, è temporaneamente in vacanza. A raccontarci l'altra Italia, quella sporca e inquietante che si intuisce appena dietro ai giornali, c'è invece lo sguardo acuto e privo di scrupoli di Giorgio Pellegrini. On un detective, no, e nemmeno un uomo perbene inciampato nella verità, bensì un reduce della lotta armata tornato in patria dopo vent'anni d'esilio in cerca di riabilitazione.
Parabola borghese? Tutt'altro. L'infido Pellegrini ha smarrito fin da subito i suoi ideali rivoluzionari ripiegando prestissimo sull'unica causa possibile: la sua. Condannato all'ergastolo in seguito ad un attentato andato a male, ha riparato in Francia e si è poi perso nei meandri della guerriglia sudamericana, eseguendo stancamente ordini di morte (il romanzo si apre con l'indolente esecuzione di un compagno d'armi) e vivacchiando di espedienti, possibilmente sulle spalle di facoltose e attempate vedove fatalmente attratte dal suo fascino tenebroso e dalla sua giovinezza - e per le quali lui stesso nutre perverse fantasie di dominazione. Rientrato in Italia affamato di soldi e normalità, vende i suoi ex compagni al prezzo di un consistente sconto di pena.
Poi si immerge in una Milano come lui immemore di lotte proletarie divenendo il tirapiedi di un boss locale e uno scaltro informatore di polizia.
Una rapina altamente militarizzata ad un furgone portavalori (che abbiamo già visto dal vero qualche anno fa lungo le strade ambrosiane) gli frutta il tanto necessario a comprarsi una nuova identità nell'opulento nord-est. Un paio di scomodi testimoni del suo passato sono l'ultimo ostacolo da eliminare (con ferocia e fantasia) per rinascere stimato professionista - un politico in ascesa come protettore (l'avvocato Sante Brianese, funesta miscela di italica furbizia e berlusconismo) e una moglie integerrima al fianco.
Ancora una volta Carlotto non ci porta buone notizie.
Laconico, quasi fugace, ci ha già illuminato sulle derive incontrollabili delle mafie dell'Est, sui percorsi scellerati della giustizia italiana, sulle collusioni insospettabili tra reparti speciali di polizia, finanza e malaffare. Stavolta, se possibile, alza il tiro, rimestando nel torbido dell'economia triveneta: un altro (un alto) giro di profitti, crimine e politica.
Paradossalmente egalitario in nome dell'utile, disposto com'è a riciclare tutto, persino lo scarto peggiore della lotta armata. Se il settentrione laido e mercificato di Aldo Nove è quasi rassicurante nella sua grettezza, quello di Carlotto ci stordisce per ambizione e consapevolezza d'intenti.
Ma è davvero così alto il prezzo del miracolo economico?