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L'unico scrittore buono è quello morto

Autore: Stefano Costa
Testata: i-libri.com
Data: 20 marzo 2012

Diversi testi già editi in riviste, il gusto per la concisione, molto di nuovo, di vario nella propria lunghezza, nel respiro della prosa. Queste caratteristiche fanno di "L'unico scrittore buono è quello morto" un'Opera mobile, cangiante.
L'ho percepita come un'Opera in grado di inverare unprofondo dialogo con il lettore. Proprio come durante una conversazione, infatti, ci si misura con "sezioni larghe" dall'ampio respiro prosastico – quelle che richiedono un ascolto prolungato – e con battute brevi, con ragionamenti articolati e con botta-e-risposta serrati, con invenzioni e con spunti che paiono vicini alla confessione.
 
Proprio come durante una conversazione, infatti, a mutare è il registro stesso perché vengono il momento in cui ci si lascia andare e quello in cui si è ricondotti a un tono più “consono” alla discussione.
Da qualsiasi lato la si guardi, mi pare un'Opera in grado di divertire e di incutere quel discreto timore che spesso si dovrebbe provare nell'accostarsi alla genesi del proprio mestiere, un'Opera in grado di raccontare e di dire, di chiedere e di sentenziare, di abbracciare e di respingere, di complimentarsi e di sfottere.
Se non sono ancora stato chiaro: è un'Opera nata dall'alternarsi di racconti e di icastiche perle, quasi – diciamo così – battute e aforismi.
Tutto ruota nell’orbita del metaletterario, intorno all’indaginesulla scrittura, sul gusto del narrare. Davvero da leggere e rileggere “La stagione dei poeti”, ad esempio, testo in prima persona che s’interroga – ironico e generoso – sul senso della parola poesia con la consapevolezza di chi non può trovare soluzioni se non nel dialogo: illuminante sin dalle citazioni iniziali lo scambio di battute – appunto – per interposta stagione letteraria tra Fëdor Tjutčev e Mr. Marco.Sottile il dialogo tra il titolo e la nota biografica in bandella: “Marco Rossari è nato”.
 
Ecco, “L’unico scrittore buono è quello morto” è un’Opera che sa sorprendere anche così, grazie a dettagli che in un primo momento passano inosservati, ma che possono essere notati cambiando angolazione, dopo, quando il libro ha già lavorato in noi una prima volta e chiede una seconda, divertita lettura.
C’è ucronia, c’è invenzione: alcuni racconti vedono improbabili Shakespeare processati per plagio, Tolstoj dei nostri giorni combattere una battaglia a colpi d’interviste radiofoniche imbarazzanti… poi Kafka, Joyce, alcuni contemporanei di cui s’intravedono i volti fanno capolino tra le pieghe di un ragionamento, lanciandoci in dono immagini icastiche, frasi che non cedono mai all’autoreferenzialità dell’Autore. Un’Opera davvero riuscita, anche per questo.
 
Certo, c’è curiosità nello scoprire come grandi classici del passato possano dialogare col lettore, attraverso la penna di Rossari, ma il vero dono di quest’Opera sta nel frammento: consiglio, infatti, di godere il libro nelle frasi brevi, nella critica alla critica letteraria, nell’esorcizzazione di tic di scrittori, editor e “addetti ai lavori”, è lì che a mio parere sta il cuore di quest’Opera multiforme, un cuore che come ogni muscolo preposto alla nostra sopravvivenza non si rivela subito, al primo sguardo, ma chiede un ascolto più profondo (con stetoscopio e tanta voglia di saper indagare tra le righe).
 
Potentissimo il racconto di quell’Autore che per scrivere un romanzo lo riedita sino a scarnificarlo d’ogni parola, sino al paradossale approdo al solo gesto fondante dello scrivere, e nulla più.
Un’Opera che è spunto per molte opere: a fronte di questo si potrebbe procedere con nuovi esempi, con la citazione di altre pagine, ma non ha senso anticipare troppo a un lettore che s’intrevede già appassionato a questi luoghi letterari.
È un’Opera che parla da sola, che non serve descrivere “per intero”, come spesso accade per testi miscellanei e compatti insieme, come quei grandi quadri che comprendi solo guardandoli dalla dovuta distanza.