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Tasso driver

Autore: Matteo Di Gesù
Testata: Giudizio Universale
Data: 28 febbraio 2007

Sebbene già a una prima, sommaria, ricognizione del apratesto di questo nuovo romanzo di Paolo Teobaldi l’ipotesi fosse balenata, il destro per il parallelo ci viene definitivamente offerto con inaspettata magnanimità alla pagina 35: su un lato dell’edificio rinascimentale che ospitava l’ospedale psichiatrico di Pesaro (quello che per la voce narrante è appunto Il mio manicomio) si leggeva su una lapide: “IN QUESTA DELIZIA DEL PARCHETTO / CHE FU DEI PRINCIPI DELLA ROVERE / EBBERO STANZA E SCRISSERO / BERNARDO E TORQUATO TASSO”. Come se nnon bastasse, più avanti si apprende che tra le degenti del nosocomio, durante il periodo nel quale il personaggio che dice “io” e racconta la storia, Matilde – Tilde – Manentini, vi prestava servizio come infermiera, c’era la Professoressa , “che aveva anche insegnato per davvero alle medie e al ginnasio, una donna intelligentissima, che però a un certo punto, a furia di studiare, era andata giù di testa: come Torquato Tasso”.

Ma procediamo con ordine. Il mio manicomio è un’opera inconsueta, a metà strada com’è tra racconto d’invenzione, documento quasi sociologico (o comunque strettamente attinente alle scienze umane), testo memorialistico fittiziamente autobiografico. Tilde rievoca la propria vicenda umana e professionale da un tempo che, ancorché non definito, s’intuisce prossimo al presente di chi legge: il suo sguardo r ivolto all’indietro risale a un’infanzia poverissima, mutila di un padre morto in galera alla Capraia, per poi ripercorrere, con andamento divagante e minuzioso al contempo, le storie dell’ospedae nel quale ha prestato servizio dal 1938 al 1978, a ridosso della riforma Basaglia (anzi “Pazzaglia”, come venne immediatamente storpiato da Tilde e dalle sue colleghe il nome del grande psichiatra). Con esse s’intrecciano le vicende private della protagonista: un matrimonio felice, un rapporto non facile con una figlia, una gravosa emancipazione dalla miseria e dalle rovine della guerra.

La voce sicura del soggetto del testo trasforma così quello che avrebbe rischiato di rimanere un dignitoso affastellarsi di aneddoti ed episodi, per quanto drammatici, in un lungo monologo doloroso e tuttavia mai cupo. A conferire al dato documentale una cifra letteraria riconoscibile e matura provvede altresì la confezione linguistica del romanzo: una paratassi sulla quale s’innesta un lessico dialettale e gergale, scelta capace di restitutire un immaginario, se non un mondo interiore.

Pare che gli anni trascorsi a Pesaro da un Torquato adolescente, alla corte di Guidobaldo II della Rovere, in quel palazzo pentagonale che tre secoli dopo sarebbe diventato il manicomio di Tilde, siano stati sereni: di lì a qualche anno avrebbe cominciato a mettere mano a un’opera che lo avrebbe impegnato, prostrandolo fino alla nevrosi, per un trentennio, tra rifacimenti e riscritture ossessionanti scrupoli religiosi e stilistici: la Gerusalemme liberata. La vicenda del più grande poeta del proprio tempo recluso nell’ospedale di Sant’Anna a Ferrara per sette anni, a causa di quello che oggi chiameremmo un forte esaurimento nervoso, si trasformò in mito letterario già tra i suoi contemporanei, per non dire dei secoli successivi, fino a condizionare, quantomeno in parte, la ricezione del suo capolavoro (“Oh misero Torquato! Il dolce canto / Non valse a consolarti o a sciorre il gelo / Onde l’alma t’avean, ch’era sì calda, / Cinta l’odio e l’immondo / Livoro privato de’ tiranni”, ricordate Leopardi?).

Riprendendo in mano oggi quello che è stato definito “il più malinconico dei poemi eroici”, ci si lascia volentieri irretire dalla perturbante musicalità delle sue ottave, dall’inquietudine che lo percorre e ne connota vicende ed episodi, duelli e amori, fino a velare di angoscia la prospettiva storica ed etica sulla quale avrebbe dovuto fondarsi quello che voleva essere il primo poema epico cristiano.

La Magis, la Pofessoressa ricoverata, trascorreva i suoi giorni dentro al manicomio svolgendo i temi che aveva assegnato un tempo ai suoi alunnie trascrivendoli in bella grafia su fogli protocollo. Tilde la ritroverà, “residuo manicomiale”, anni dopo il suo pensionamento: sporca e disfatta ancora reclusa al San Benedetto, ormai andato in rovina. La Professoressa le donerà l’ultimo suo elaborato, scritto stavolta con una grafia incerta efaticosa. Il titolo del tema era “Il dolore nella letteratura italiana”. Ci sembra un ottimo suggello anche per questo parallelo.