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I Beatles illuminati dal Faro dell'Himalaya

Autore: Andrea Scanzi
Testata: La Stampa
Data: 25 febbraio 2007

La storia del rock è fatta di nomi, ma anche di luoghi. A ogni luogo corrisponde un suono. Nel 1970 i Led Zeppelin si rintanarono nel cottage di Bron-Y-Aur, nel Galles, danno vita alla tappa più bucolica della loro Tetralogia del Dirigibile. Nel febbraio del 1968, i Beatles si nascosero in un ashram ai piedi dell’Himalaya per meditare con il guru Maharishi, che diffuse in Occidente la Meditazione trascendentale. Con i Fab Four, sulle rive del Gange, c’erano anche Donovan, Mike Love dei Beach Boys e Mia Farrow, al tempo Lady Sinatra.

Quasi quarant’anni dopo, Lewis Lapham, unico giornalista ammesso al raduno, racconta il dietro le quinte in I Beatles in India. Altri dieci giorni che cambiarono il mondo (Edizioni e/o, pp. 120, Euro 8,50). Non è un libro agiografico. Lapham non amava i Beatles, preferendogli (non a torto) Art Tatum e Charlie Parker. Al tempo stesso, credeva assai poco al “messaggio dei fiori” del Maharishi, che nel 1967 aveva iniziato alla pratica meditativa i Beatles. Il Movimento di Rigenerazione Spirituale del Maharishi, agli occhi di Lapham, appariva come uno quinternato gruppo di “apostoli” che credono in un Guru “la cui risata è come un cinguettio di uccellini”. Sistematicamente, di fronte alle domande di Lapham sulle ricchezze economiche del Movimento, e sull’utilizzo dei Beatles come micidiale grancassa mediatica, Maharishi si guarda bene dal rispondere. “Maharishi era comparso negli Stati Uniti nel 1959. Da principio viaggiava senza beni terreni, ma quando i suoi insegnamenti gli avevano assicurato un pubblico sempre più vasto (anche grazie ai dépliant che lo definivano il “Faro dell’Himalaya”) aveva comprato una valigia e aperto un conto in Svizzera”. Sulla differenza con Gandhi, il Maharishi non aveva mai avuto dubbi: “Il mio campo è la consapevolezza, quello di Gandhi è la politica”.

Dei quattro Beatles, l’unico realmnte affascinato sal “Faro dell’Himalaya” era George Harrison, che nei dischi successivi infarcì ogni melodia di sitar e suoni indiani. Paul McCartney era infastidito dall’atteggiamento adulatorio del guru, le mogli al seguito trovavano affascinanti solo gli elementi esotici del paesaggio (come le scimmie sulle liane) e Ringo Starr, molto prosaicamente, sentiva la mancanza dei suoi nove gatti e diceva di poter stare benissimo nella posizione del loto anche a Liverpool. Eppure, per non dispiacere Harrison, “i Beatles avevano manifestato il desiderio di diventare divulgatori del messaggio: volevano imparare come attingere alle sorgenti della peura energia e della pura intelligenza non solo per i propri fini creativi, ma anche a beneficio degli altri”.

Riponeva grandi aspettative nel Maharishi anche John Lennon. Ne rimase profondamente deluso. Verso la fine della permanenza in India, circolò la voce che il Maharishi intendesse rompere il voto del celibato. I giornali scrissero che il ritiro spirituale dei Beatles celava “festini orgiastici sotto il fronzuto baldacchino dell’ashram”. Di lì a poco Mia Farrow accusò il Maharishi di violenza sessuale. Lennon se ne tornò in Inghilterra. In valigia teneva non poca frustrazione e qualche canzone, germi del White Album di lì a venire.