Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

Come osservarci da un reclusorio

Autore: Gianni Paris
Testata: Stilos
Data: 8 maggio 2007

Paolo Teobaldi è il cantore del microcosmo provinciale. E anche in Il mio manicomio fa respirare una porzione della sua terra, le Marche settentrionali, attraverso lo sguardo di Tilde Manentini, nata nel 1920, che per quarant’anni (1938-1978) lavora come infermiera nel manicomio “in fodo al corso”. Il suo è un monologo esistenziale, lei che è figlia di una madre bigotta e di un padre il cui volto è difficile da delineare. Le raccontano soltanto che suo padre è morto in guerra, a Caporetto, ma i lati oscuri sono tanti, troppi per bersela. Le date, i riferimenti, non coincidono. La povertà è la spiegazione che più spesso Tilde dà dei matti. Dalla voce di Tilde percepiamo il dolore del manicomio, in cui gli italiani ci appaiono furbi, tragici e comici al tempo stesso, perennemente a caccia di avventure sessuali. Molti sono i personaggi: il dottore fissato con l’elettroshock, i degenti divisi tra Tranquilli e Agitati, le suore carogna. Stilos ha intervistato l’autore.

Un romanzo musicale, con ritmo andante allegro. Si ritrova in questa definizione del suo Manicomio?
Musicale, credo (spero) di sì ma non sono del tutto sicuro che il ritmo sia andante allegro. Avevo in testa un modello musicale a prima vista monodico (il lungo monologo di Tilde, la protagonista) in cui però la narrazione fosse polifonica: come nelle poesie, o meglio nei racconti in versi, di Raffaello Baldini (per non dire nelle storie di mio padre, Washington T., falegname e narratore orale). Direi: una polifonia con basso continuo.

Vediamo la questione della lingua: una volta tanto il dialetto adorna l’italiano, sino a renderlo molto più diretto, comprensibile, efficace. Una scelta dovuta, o necessaria per entrare nel sangue di Tilde, l’infermiera dei matti?
E’ un discorso lungo e complesso, che è alla base di questo e degli altri miei libri precedenti (soprattutto Il padre dei nomi). Il dialetto, per molti della mia generazione, viene prima dell’italiano. In fondo è la lezione di Baldini e di altri Grandi: Luigi Meneghello, Franco Loi, Dolores Prato… E poi basta rileggersi La macchina mondiale di Volponi. Oggi però assistiamo a un fenomeno innegabile (almeno per la nostra lingua), che dipende da molte cause: un progressivo depauperamento, una specie di pastorizzazione, dell’italiano, il cui lessico si va ritirando come i ghiacciai alpini. L’italiano è come schiacciato tra l’inglese (che molti non conoscono ancora, pur simulando di conoscerlo) e il dialetto (che molti non conoscono più). Ne deriva, tra le altre conseguenze, che vengono captate come dialettali, o peggio che non vengono più intese, parole che invece sono italiane a tutti gli effetti, o per le quali basterebbe fare un po’ di attenzione o un minimo sforzo di lettura (ovvero d’ascolto). Nel caso del Mio manicomio la lingua di Tilde, anzi la sua voce, non poteva che avere questo impasto.

Il monologo di Tilde consente di soffermarci su alcuni decenni della storia patria. Dalla ritirata di Caporetto alla società del bnessere. Come dire, attraverso i matti, capiamo la normalità?
Oltre che “attraverso i matti”, direi attraverso i luoghi di reclusione (manicomi, prigioni…). Mi rendo conto che è una specie di paradosso (comprendere una società per mezzo dei reclusi) eppure a me è capitato di incontrare dei monaci dei clausura, ad esempio dei Camaldolesi, che, pur vivendo in una cella, avevano una visione lucidissima della nostra attuale società e dei suoi conflitti. Ma in fondo anche uno scrittore è o dovrebbe essere una specie di camaldolese. Sono d’accordo invece sulla scansione temporale: dalla ritirata di Caporetto (che segna l’infanzia della protagonista) alla società del benessere: ma forse si dovrebbe dire, la cosiddetta società del benessere (ricordo il bellissimo libro di Fiori, La società del malessere).

Lei ha fatto cantare, nel rispetto della musicalità accennata, personaggi che pregano in latino, pur essendo analfabeti, che amano l’elettroshock senza capirne il senso, che vivono correndo, pur restando seduti tutto il giorno. Chi ha aiutato la sua fantasia, a pochi sentimetri dal suo udito?
Non saprei dire con precisione. Credo che dipenda, oltre che dal mio carattere, dal lavoro, o meglio dai lavori che ho fatto nella vita: traduttore, insegnante e copywriter. I quali, pur essendo lavori diversissimi tra loro, ma hanno una base in comune: la necessità di comprendere, e quindi di ascoltare, quello che dicono gli altri: il testo, lo studente, il committente (anche il mobigliere con la g…)

Un parco appartenuto un tempo ai Duchi della Rovere trasformato in manicomio. Cosa c’è di strano in questo “passaggio di proprietà”?
Più che “passaggio di proprietà” (dai Della Rovere alla Provincia) il Parchetto Ducale ha subito un cambiamento di funzione: da luogo di delizie a manicomio. Nello stesso tempo però qualcosa del parco è rimasto ed è leggibile ancora oggi, a distanza di secoli. La lapide incastonata sul muro di cinta dell’ex manicomio (IN QUESTA DELIZIA DEL PARCHETTO / CHE FU DEI PRINCIPI DELLA ROVERE / EBBERO STANZA E SCRISSERO / BERNARDO E TORQUATO TASSO) fa riferimento al fatto che nel Parchetto i duchi avevano fatto costruire una specie di villino, “in forma di ruina”, destinato ad ospitare gli ospiti illustri. Il manicomio (o meglio il carcere) di Torquato Tasso non sarà quello di Pesaro ma quello di Ferrara.

Non crede che l’osservatorio dei manicomi abbia aperto gli occhi sul concetto di normalità?
Faccio fatica a rispondere a questa domanda. Cosa vuol dire “essere normali”? Oggi vedo intorno a me comportamenti molto diffusi che però non sono affatto normali, anzi sono proprio demenziali. Per esempio (io vivo a Pesaro, a due passi dalla “Mecca”, cioè dalle discoteche della Romagna): il rito barbarico del sabato sera, comprensivo di alcol, auto, discoteca, rientro mattutino, con i suoi morti e i suoi feriti: Nassirya, a confronto, è uno zucchero... Ma poi mi chiedo (e parlo per me): è normale passare due-tre-quattro anni chiusi in uno studiolo di metri 3 X 2 per scrivere un romanzo?

Pur usando l’ironia, lei ha scritto un romanzo arrabbiato. Conferma, e ci spiega il perché?
Sì, credo di sì. E’ arrabbiato perché per la protagonista i conti non tornano. Matilde è un personaggio senza pace (come molti del resto), a cui i conti non possono tornare: perché la sua vita parte da un non-detto (l’assenza del padre) e finisce paradossalmente con un non-scritto, cioè con la scrittura della Professoressa, ormai “residuo manicomiale”, che si disfa, quasi si squaglia. Tra questi due estremi non mancano, però, delle pagine che strappano al lettore una risata, magari a denti stretti.