«L'ultima volta che il mondo s'interessò al mio Paese», ricorda la giornalista indiana 
Mira Kamdar, «fu all'epoca del pellegrinaggio dei Beatles». Oggi riscopriamo l'India come nuova potenza dell' economia globale, ricca di giovani talenti dell'informatica e delle biotecnologie, culla di una nouvelle vague del cinema e della 
letteratura. Quarant'anni fa l'Occidente si lasciava conquistare da una "moda 
indiana" di segno diverso. Fu un viaggio del quartetto pop più celebre della storia a 
cambiare la percezione di quel Paese. Intere generazioni s'innamorarono di un'India immaginaria, partirono sulle rive del Gange in cerca di nuovi valori e in fuga 
dal progresso che le disgustava. In una specie di ipnosi collettiva crollarono stereotipi ancestrali, svanì dalle menti dei giovani europei e americani quell'altra India che 
appena pochi anni prima Pier Paolo Pasolini aveva definito «la nazione senza 
speranza».
 
Il 1968 è l'anno più tragico nella guerra del Vietnam, lo stesso in cui 
muoiono assassinati Martin Luther King e Bob Kennedy, le rivolte dei neri 
sconvolgono intere città americane, a Parigi nel Quartiere latino studenti e polizia si 
scontrano sulle barricate in fiamme, Breznev manda i carri armati sovietici a 
schiacciare nel sangue la Primavera democratica di Praga. Anche in India - quella 
vera - sono tempi duri: il dirigismo di Indira Gandhi non riesce a impedire le carestie 
di massa, crescono i rischi di guerra con il Pakistan. Con una scelta di tempi che oggi 
appare curiosa, è proprio dal febbraio all'aprile del '68 che i Beatles abbracciano l'India. Reduci dai successi mondiali di Revolver, Magical Mistery Tour e Sgt. Pepper's, si trasferiscono a meditare in un ashram, rilanciando tra i giovani del mondo intero 
l'antica tradizione del viaggio iniziatico a Oriente.
 Quel che accade in quei tre mesi 
non assomiglia esattamente a un isolamento da eremiti. Assieme ai Beatles infatti si 
trasferisce un variopinto caravanserraglio di loro amici che sono altrettante star dell'epoca: il cantante folk Donovan, Mike Love dei Beach Boys, l'attrice Mia Farrow con 
la sorella Prudence (a cui John Lennon dedicherà una celebre canzone), la top model 
Marisa Berenson, più mogli e amanti e un esercito di giornalisti e fotografi da cui il 
pianeta dei teen-agers attende con trepidazione la cronaca dell'"esilio indiano".
 La spedizione in India ha un antefatto e un abile regista. Il guru indiano Maharishi 
Mahesh Yogi si è già conquistato un "mercato" sulla West Coast californiana, dove 
alcune migliaia di adepti seguono i suoi insegnamenti. Nell'agosto 1967 Maharishi 
sbarca a Londra, dove affitta un salone dell'hotel Hilton per impartire lezioni di 
meditazione trascendentale: una semplice tecnica di concentrazione per astrarsi dal 
"rumore di fondo" del mondo esterno, affrancarsi dalle sirene del materialismo, 
raggiungere la pace interiore. I Beatles assistono alla sua performance dell'Hilton, 
poi, insieme al solista dei Rolling Stones Mick Jagger, seguono Maharishi nel Galles 
per un ritiro di dieci giorni, a padroneggiare le tecniche del silenzio contemplativo. E 
il colpo di fulmine. John Lennon e George Harrison annunciano che non faranno più 
uso di droghe, salvati dalla sapienza indiana. Harrison entra nella sua fase mistica, 
da cui non uscirà più. Lennon, il più "politico" dei Fab Four, accarezza il sogno di 
usare l'ascetismo indiano per promuovere la pace mondiale. Paul è attratto da ogni 
esperienza eclettica che può arricchire il suo repertorio musicale. Il guru promette 
miracoli: seguendo i suoi insegnamenti i Beatles possono arricchire la propria 
creatività artistica e al tempo stesso aiutare i giovani di tutto il mondo ad «attingere 
alle sorgenti della pura energia» per liberarsi dell'infelicità. Il passaggio obbligato è 
un lungo soggiorno all'ashram del Maharishi a Rishikesh, cittadina sacra situata dove
il fiume Gange scende a valle dalle vette dell'Himalaya. 
L'infatuazione dei Beatles 
non è una novità assoluta. Prima di loro altri europei e americani hanno subito il 
fascino della spiritualità orientale. I poeti del romanticismo tedesco nell'Ottocento 
hanno esaltato l' India come la culla originaria di tutte le religioni. Hermann Hesse 
con Siddharta ha esplorato il buddismo e ha scritto il più bel romanzo sul viaggio 
iniziatico a Oriente. Il pellegrinaggio indiano ha attirato un "poeta maledetto" della 
beat generation di San Francisco, Allen Ginsberg, che ha vissuto sulle rive del Gange 
nel 1962. Le scuole zen sono apparse in California dai primi anni Sessanta. Lo yoga 
ha fatto breccia a Berkeley nella prima contestazione studentesca, il movimento Free 
Speech del 1964.
 Ma si tratta di sperimentazioni d'élite. Nessuno fra i precursori 
della moda indiana può sprigionare una potenza mediatica lontanamente 
paragonabile ai Beatles. Il quartetto venuto da Liverpool ha spezzato l'egemonia 
americana sulla musica leggera del dopoguerra. I loro dischi censurati vanno a ruba 
tra i giovani sovietici come simboli di liberazione. John Lennon ha potuto permettersi 
di dichiarare che i Beatles sono più popolari di Gesù Cristo e non è stato neppure 
scomunicato. Anzi, la regina Elisabetta, che formalmente è anche alla testa della 
Chiesa anglicana, li ha insigniti del titolo di baronetti. Portare i Beatles in India è il 
più grande colpo per impressionare l'Occidente dai tempi della "marcia del sale" e 
degli scioperi della fame con cui Gandhi mise in ginocchio limpero britannico. Il 
geniale Maharishi - che in patria molti considerano un ciarlatano - sembra possedere 
un tocco magico. Forse anche il tocco di Re Mida. Una sua aspirazione è farsi 
assegnare una percentuale sulle royalties dei dischi dei Beatles, per finanziare il suo 
"Movimento di rigenerazione spirituale".
 Maharishi si circonda di collaboratori che 
gestiscono le finanze del suo impero e curano l'immagine del Movimento. Essenziale 
è tenere alla larga i giornalisti indiani, disincantati e capaci di domande troppo 
indiscrete. Ma anche la stampa occidentale va tenuta sotto controllo. Quando i 
Beatles sbarcano a Rishikesh, nel febbraio '68, la cittadina sul Gange viene blindata 
da cordoni di fedeli del guru con la consegna di tenere alla larga tutti i reporter. Solo 
pochi giornalisti eludono la sorveglianza. Uno è Lewis Lapham, allora giovane star del 
new journalism. Lapham, che nel '68 è inviato speciale del Saturday Evening Post, 
riesce a introdursi nell'ashram e assiste di persona al ritiro spirituale dei Beatles. 
Quarant'anni dopo, ormai Grande Vecchio dell'intellighenzia liberal e direttore dell'autorevole rivista Harper's, Lapham rivela quell'esperienza nel libro With the 
Beatles (tradotto da poco in italiano con il titolo I Beatles in India, edizioni e/o). 
Protetti nella loro privacy dal vigilante guru indiano, racconta Lapham, i Beatles 
stavano quasi sempre per conto loro, a comporre canzoni o chiusi in seminari privati 
con il Maharishi. Avevano avuto le uniche case con acqua corrente e comfort quasi 
occidentali. Solo a cena era possibile incontrarli. «George», scrive Lapham, «era 
quello più impegnato nella teoria e nella pratica della trascendenza. Lasciò tutti di 
stucco rivelando che il suo mantra era in inglese. Nessuno aveva mai parlato del 
proprio mantra, si supponeva che il farlo l'avrebbe privato di senso e di potere, ma 
tutti davano per scontato che il mantra di ognuno consistesse in un paio di sillabe in 
misterioso sanscrito. Niente affatto, disse Harrison, il suo mantra compariva in una 
canzone di Lennon, I Am the Walrus ("Io sono il tricheco"). Con gli occhiali 
biancolatte e il colorito pallido, John dava l' idea dell' intellettuale concentratissimo ed 
enigmatico, impegnato a setacciare con cura i testi della saggezza del Maharishi alla 
ricerca di un qualcosa che potesse riconoscere come verità. Non era sicurissimo che il 
Maharishi fosse più saggio di Lewis Carroll, ma sapeva che riuscendo a trovare dentro 
di sé un paese delle meraviglie interiore, al riparo dello spazio e del tempo, niente 
potrà più scuotere il mio mondo. Ringo e Paul non parlavano granché della 
meditazione. Sì, avevano ottenuto qualche risultato. No, non lo facevano 
controvoglia, ma dal loro atteggiamento si capiva che la faccenda riguardava 
soprattutto George, e se lui voleva andare in India, ok, bene, andiamo tutti in 
India. Ringo sentiva la mancanza dei figli e dei suoi nove gatti e sosteneva che 
avrebbe potuto mettersi altrettanto bene nella posizione del loto anche a Liverpool». 
McCartney non gradiva l'atteggiamento adulatorio del Maharishi nei confronti del 
gruppo e della sua musica («la storia che siamo i figli di Dio e i salvatori del genere 
umano») né dava molto credito alla grandiosa metafisica dello yogi: «Mi trovo un po' 
perso ai livelli superiori».
 Dopo il primo mese la magia comincia a dissolversi. Mia 
Farrow sparisce di colpo dal ritiro, sembra dopo aver subito avances sessuali troppo 
insistenti da parte del guru. Circolano voci che il Maharishi abbia insidiato anche un'infermiera australiana e una studentessa californiana. I Beatles vengono assaliti da 
un timore: se la stampa inglese si impadronisce di quelle storie li prenderà in giro 
senza pietà, trattandoli come dei creduloni vittime di un colossale raggiro. Ringo è il 
primo a rompere i ranghi, con eleganza: definisce quelle accuse «pettegolezzi senza 
senso» ma ne approfitta per scappare dal giardino dell'Eden. E il segnale del 
rompete le righe, gli altri lo seguono a ruota. «Ancora venti mesi», conclude Lapham, 
«e i Beatles avrebbero smesso di esistere come gruppo. La cocaina avrebbe preso il 
posto della marijuana sui mercati della trascendenza. Le partenze per i magical 
mistery tour sarebbero state gestite dall'esercito americano, che per i successivi sei 
anni avrebbe spedito altri trentacinquemila giovani a morire in Vietnam. I Beatles 
però erano scesi dalla montagna con le trenta canzoni che compongono il White 
Album». E l'immagine dell'India in Occidente conservò a lungo gli echi armoniosi e 
languidi del sitar di George Harrison: una melodia di una dolcezza infinita.