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Il tempo che passa è un discorso da bar

Autore: Dario Galateria
Testata: La Repubblica
Data: 15 aprile 2013

Questa è la storia di un caffè in un paese montano della Corsica — forse Sarthène, dove l'autore Jérôme Ferrari è nato. Racconto corale, a volte esilarante, che ha vinto l'ultimo premio Goncourt. Si intitola Il sermone sulla caduta di Roma, ora tradotto da Alberto Bracci Testasecca per e/o. Una bel mattino del dopoguerra, la cameriera del bar corso è sparita senza lasciare traccia, e inizia per l'anziana padrona una girandola di gestori, comicissimi e sempre fallimentari. Tra El Comandante bar, concept lounge con hi-fi fisso e la faccia luminosa e intermittente di Che Guevara, la spaesata gestione familiare di affidabili strasburghesi, le liti e le erotiche riappacificazioni, una più chiassosa dell'altra, di una coppia di sposi, e mille altre "calamità egizie" che si abbattono sul bar del paese, gli avventori del luogo devono riposizionarsi ogni volta e lo fanno di buon grado, indimenticabili figurine del tempo perso. Ma ecco arrivare a creare «una comunità festante e alcolica » di habitué, turisti e giovani dei dintorni due ragazzi, Libero e Matthieu. Hanno "conoscenza del terreno": sono del paese, rientrati delusi dall'Università a Parigi (le pagine sull'istituzione sono tra le più deliziosamente caustiche del romanzo) e hanno deciso, per lo sconforto dei genitori, di tornare sull'isola a gestire il caffè. Libero e Matthieu importano nel bar allegria, inattesa competenza, e giovanissime cameriere stagionali; e naturalmente la tragedia è in agguato, tra cacciatori esperti di coltelli e fucili. Intanto, il romanzo si volge indietro a rievocare la vita dei padri, e dei padri dei padri; e nel volgersi delle generazioni dei nonni e dei nipoti, trascorrono l'impero coloniale francese, due dopoguerra, invasori nazisti e algerini «coi coltelli a curva saracena», Marsiglia, l'Indocina, la Corsica immota, e quasi un secolo; e nulla veramente cambia, semmai passa. Il romanzo infatti ha una cornice, che è il tempo. Si apre con una vecchia foto del 1918: una famiglia corsa sta impettita e ostinata davanti all'obiettivo, numerosa, ma bacata, per chi sa leggerla, dall'assenza del padre, che è via per la Grande Guerra, e del protagonista, Marcel, che sarà concepito al ritorno del reduce. Nell'ultima pagina, il vecchio Marcel, morendo, porta via ogni senso all'immagine; non c'è più nessuno che ricorda e può dar nome alle facce di un mondo primitivo e anch'esso destinato forse a scomparire. Anche i luoghi, nel superbo romanzo di Ferrari, sono bilanciati, in una struttura sapiente e inavvertita. Come in un racconto di Henry James in cui si confrontino vecchio e nuovo mondo, Parigi si contrappone alla Corsica. Matthieu è il bambino trapiantato nella capitale che in vacanza torna sull'isola, dove assiste alla castrazione di giovani verri — coltello alla mano, un ragazzo incide lo scroto, poi tuffa le mani per estrarne un primo testicolo e tranciarlo, e via così — alla fine i maiali, con stupefacente stoicismo, si rimettono a grufolare come se nulla fosse; e tutti finiscono (il piccolo parigino capisce solo allora che si è preparata la cena) a mangiare "coglioni di porco" grigliati al fuoco di legna. Poi si va a sparare nel vuoto della valle, qualcuno nomina Ribeddu, il grande partigiano terrore degli italiani. Al secolo, è Dominique Lucchini — anche Jérôme Ferrari parla degli eroi della storia ormai, secondo la tendenza del romanzo francese (la sua prova precedente, Dove ho lasciato l'anima, era dedicata a due torturatori della guerra d'Algeria). Più che a Ribeddu però — il Ribelle eroe successivamente della resistenza all'invasione italiana, del partito comunista e dell'autonomismo corso — Ferrari si diverte a creare un corso delle montagne con un aspetto «da cacciatore neolitico» che fa strage di soldati italiani, e che a una cerimonia porta delle buone scarpe: è un gigante, ma ha i piedi piccoli, e continuava a uccidere, cercando scarponi del suo numero. La Roma del titolo non compare mai. Il Sermone sulla caduta di Roma è un discorso del 410 di Sant'Agostino: Roma caput mundi è stata messa a ferro e fuoco da Alarico, e il vescovo di Ippona parla ai fedeli, sconvolti. Il senso del titolo aspetta, dall'inizio del romanzo. Solo nell'ultima pagina si comprenderà: «Roma è stata data alle fiamme e i vostri cuori sono scandalizzati. Ma io chiedo a voi che mi siete cari: Dio vi ha mai promesso che il mondo sarebbe stato eterno? Non piangete sui palazzi e i teatri distrutti, non è cosa degna della vostra fede». E avvisa Agostino: «Poiché Dio ha fatto per te soltanto un mondo perituro. E tu, guarda chi sei. Perché necessariamente viene il fuoco».