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Jérôme Ferrari: gli imperi muoiono senza un fremito

Autore: Antonio Scurati
Testata: La Stampa
Data: 24 maggio 2013

La crisi che stiamo vivendo porta con sé la fine di molte cose. Nel cerchio minore, solo per fare qualche esempio, la fine del cinema, del giornalismo della carta stampata, la fine dell'università, quella dei nostri matrimoni. Nel cerchio maggiore, la fine della sinistra, dello Stato sociale, del lavoro, della democrazia rappresentativa, dell'Europa del benessere e della supremazia Occidentale. Eppure, c'è qualcosa d'inadeguato nella nostra risposta emotiva a tutto questo. Prevalgono lo sconforto, la delusione, non l'angoscia, la rabbia, la magnanimità della disperazione. A deluderci è proprio la fine annunciata, non le promesse mancate. Abitiamo quotidianamentemondi morenti, universi in contrazione e a sconfortarci è proprio il modo sfinito del loro finire. La fine dei mondi in cui crescemmo, come profetizzato da T. S. Eliot, non arriva con un «bang» ma con un frigno (queste righe, me ne rendo conto, lo prolungano). È come se il nostro presente non si dimostrasse all'altezza delle proprie, piccole o grandi, apocalissi. Il Sermone sulla caduta di Roma, romanzo di Jérôme Ferrari vincitore l'anno scorso del Premio Goncourt - e ora tradotto dal francese da Alberto Bracci Testasecca per le edizioni e/o - ci restituisce magistralmente l'astenia delle nostre catastrofi al rallentatore. La fine dei mondi è indubbiamente il tema di questomagnifico racconto filosofico; lo esplicitano il titolo principale, le titolazioni dei capitoli tratte dai sermoni di Agostino, l'epigrafe in esergo, sempre da Agostino («Timeravigli che ilmondo va in rovina? Meravigliati che il mondo è invecchiato »), l'aletta e la quarta di copertina, oltre a molti brani meditativi del romanzo. Insomma, testo e paratesto congiurano per convincerci cha stiamo sfogliando un'opera dedicata al più alto e grave dei temi. Eppure, se dovessimo riassumere in breve la trama principale del romanzo, dovremmo farlo così: due giovani uomini dei nostri giorni, delusi dagli studi universitari, decidono di aprire un baretto in un paesino della Corsica dove hanno trascorso la parte felice della loro infanzia; dopo un iniziale, breve successo, tutto va a rotoli. Fine della storia. Certo, questa storia minore di cui si sostanzia la trama maggiore del romanzo, una volta giunta alla propria fine, conosce un finale tragico, con tanto di «bang» da colpo di pistola.Masi tratta di un finale a tal punto voluto dall'autore
- quasi tracciato dall'esterno con un colpo di pollice dello sceneggiatore
- da coglierci quasi di sorpresa nella sua improbabilità (e questo nonostante l'abbondanza di segni premonitori, profusi deliberatamente). Di più. L'intera vicenda principale, se lasciata a se stessa, rischierebbe di precipitare nella scanzonata inconsistenza di una serie televisiva all'italiana - non a caso, sempre più spesso ambientate in bar o ristoranti - con tanto di incroci amorosi, equivoci comici, macchiette e caratteristi di contorno, e questo nonostante la prosa sontuosa e solenne in forza della quale Ferrari la sostiene, pagina dopo pagina, ad altezze vertiginose. Mail punto è proprio questo: Ferrari non la lascia affatto a se stessa. E non è solo con la sua lingua magnifica che le fornisce il lievito di cui l'esile trama ha un tremendo bisogno (la lingua, a sua volta, se lasciata sola con se stessa, è il resto di niente). Ferrari incastona la sua piccola gemma fasulla, cavata dal grembo della terra con i colpi ciechi del caso, dentro un pregiatissimo castone. Due altre linee narrative, linee curve, quasi circolari, abbracciano, infatti, la storia principalemaminore di Libero e Matthieu, intenti a creare il proprio baretto, il proprio «posto pulito, illuminato bene» da elevare al rango di microcosmo perfetto. La prima di queste linee narrative secondarie narra nientemeno che la storia del nostro Novecento. Filtrata attraverso le reminiscenze di Marcel, nonno di Matthieu, come attraverso la valva di un mollusco che spurghi un mare infetto, la «grande» storia del XX secolo, colta nei suoi momenti fatidici, nei suoi «eventi», scandita dalle sue guerre, le sue conquiste e disfatte coloniali, storia di battaglie, raggiunge e permea
- conquista per sfinimento, si potrebbe azzardare - anche il paesino di mezza costa, l'eden semirivierasco in cui i due ragazzi odierni, due generazioni più tardi, ben pasciuti e protetti dentro la membrana impermeabile del secolo Ventunesimo, si dedicano alla insulsa, divertente, velleitaria impresa di ricreare in un antico borgo di gente grama e dolente un clima da villaggio vacanze. La seconda linea narrativa aggiuntiva, rievocata anche grazie al personaggio di Aurélie, sorella di Matthieu, archeologa che scava nei deserti dell'Algeria alla ricerca della chiesa che fu di Agostino, vescovo di Ippona nel V secolo dopo Cristo, narra, poi, addirittura della caduta di Roma per mano dei Vandali di Alarico e della fine del mondo antico. Paradossalmente, sono proprio queste due reminiscenze di mondi estinti a insufflare la vita nel pezzetto d'argilla maldestramente plasmato dalle mani sconsiderate e inesperte di Libero e Matthieu, e, contemporaneamente, nel piccolo mondo magistralmente plasmato dalla penna di Ferrari. La grandezza del suo romanzo non si genera nonostante la «piccolezza» del suo soggetto narrativo principale ma proprio grazie a essa, alla giustapposizione tra la pochezza delle nostre quotidiane apocalissi, tra la modestia delle nostre aspirazioni, comunque frustrate, dei nostri miseri sogni di baristi falliti, e la vastità cosmica di mondi da tempo crollati. Volendo illustrare letterariamente il tema filosofico della fine dei mondi, Ferrari si è guardato attorno nel suo mondo di quarantenne professore di filosofia, nato a Parigi nel 1968, cresciuto nell'opulento occidente europeo nella seconda generazione nata dopo la fine della Seconda guerra mondiale, e non ha trovato niente di adeguato. Eppure non ha desistito. Ha preso la fine del mondo antico, la fine delle illusioni moderne e, accostandole al nostro presente, le ha usate come diapason per accordare a una nota standard le vibrazioni della fine emesse alle nostre basse frequenze. In questo modo, ha trasformato la cavità del nostro presente in un luogo delle risonanze, una caverna in cui tendere l'orecchio al riecheggiare inesausto del tonfo prodotto da mondi perduti. Ma ha anche fornito al nostro presente, per quanto modesto, un cielo sotto cui vivere, una volta cosmica verso la quale poter alzare lo sguardo. In un brano del romanzo Ferrari rievoca, per tramite di Marcel che era stato governatore di una delle sue remote province, la fine dell'impero francese («È così che muoiono gli imperi, senza che si avverta neanche un fremito?»). Prepensionato in ufficio ministeriale di Parigi, ricaduto pesantemente assieme agli uomini della sua generazione «nel campo gravitazionale della propria nazione decaduta», per Marcel «a Parigi il sapore della solitudine si fa a poco a poco insipido, la pioggerella fredda ha scacciato gli insetti che nella luce bianca del sole depongono le uova sotto la pelle delle palpebre translucide e sigillato le mandibole dei coccodrilli, sono finite le lotte epiche, bisogna accontentarsi di nemici disprezzabili, l'influenza, i reumatismi, il decadimento, le correnti d'aria nel grande appartamento dell'VIII arrondissement». Si tratta di un brano rivelatore. Rivela, fra l'altro, che la fame di storia che caratterizza buona parte del migliore nuovo romanzo francese, italiano ed europeo è ricerca di una forza di trascendimento dalla asfittica bolla d'immanenza in cui abbiamo troppo a lungo vissuto. Il romanzo possibile di un'epica impossibile.