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Note dagli anni affollati di Elena e Lila

Autore: Titti Marrone
Testata: Il Mattino
Data: 6 novembre 2013

Dallo «spazio di libertà creativa assoluta» che abita, celata dietro il nome «Elena Ferrante», la grande scrittrice nascosta fa arrivare Storia di chi fugge e di chi resta (e/o, euro 19,50), terzo volume di un articolato ciclo narrativo. E leggendo le sue 382 pagine, più che con l'Amica geniale e Storia del nuovo cognome, capita d'immergersi totalmente nella storia per il sortilegio di una scrittura fatata, di una sonorità sottesa alle vicende come una nenia, capace di trascinare via il lettore incantandolo, ma per poi consegnarlo a se stesso con un senso in più della vita. E con una percezione di tempi e luoghi - Napoli, soprattutto - che nessun altro sa restituire così.

Storia di chi fugge e di chi resta è il racconto delle due amiche, Elena e Lila, fatto dalla prima, che se ne va da una torbida Napoli del dopoguerra, prima a Pisa, poi a Firenze, e scrive libri, e sposa un professore, e lo lascia per il primo amore napoletano. Lila, la sua amica con «potenza di sirena», la marcia in più d'intelligenza per cui sembra riuscire in tutto, resta nel rione soffocante e sguaiato, diventa operaia dopo il naufragio di precocissime nozze, poi risale la china sociale come programmatrice elettronica ante litteram. Però quel che conta non è il plot: è la tessitura narrativa che intreccia visoni e realtà contrastanti sugli anni Settanta delle lotte studentesche e operaie, quando il mondo sembrava destinato a rovesciarsi e perfino Napoli appariva votata all'impossibile, cioè prossima a cambiare.

In questa tessitura, Ferrante procede per mondi contrapposti. Il primo è quello del rione, forse Fuorigrotta con tratti della Sanità, dove convivono camorristi, provericristi, artigiani, operai. È un mondo diffidente verso l'esterno, dove si ritiene che lo studio sia «un trucco dei ragazzi più furbi per sottrarsi alla fatica quotidiana» e ostile soprattutto allo studio che rovina il cervello delle femmine, come Elena, altrove lodatissima ma qui crocifissa con una recensione sul Roma per il suo libro dalle pagine «spinte», scollacciate. Ferrante pesca parole così per raccontare quel mondo, quello di sua madre zoppa, dal «passo sghembo» da cui teme di essere raggiunta. Nel rione che è poi la città stessa, che la lingua è diversa. In Ferrante il dialetto fa da osceno rito indennitario, codice di necessità, contagio che attacca pensieri cattivi anche ai bambini.

Al mondo del rione è contrapposto quello degli Airota, illuminati intellettuali progressisti e di sinistra. Nella loro casa di sinceri democratici, cui Elena ha accesso avendo sposato il figlio Pietro, «vigevano ideali grandi, il culto del buon nome, questioni di principio». Gli Airota, sempre «dalla parte della verità e della giustizia», praticano una sorta di «ascetismo nell'abbondanza», si aprono a ogni sorta di sollecitazione proveniente dall'esterno, incluse quelle portate da Elena di cui accolgono la naiveté napoletana, ma che non rinunciano a voler correggere. Ma nello spazio aperto dal loro progressismo avranno un ruolo dirompente sia il mondo di Elena, evocato in uno straordinario pranzo a casa del camorrista Solara, sia quello del nascente femminismo incarnato da Mariarosa. Ancora due mondi contrapposti e raccontati da Ferrante come da nessun altro: quello operaio e quello studentesco, con i ragazzi dal linguaggio sboccato («non pronunciava una parola che non fosse preceduta da "cazzo"»), quella «convinta di essere al servizio degli operai dalla sua stanza dentro una casa tutta libri e con l'affacciata sul mare»: s'incaricherà Lila di far deflagrare i contrasti, rifiutandosi di accettarne i volantini preziosi come di farsene comandare.

Ma del mondo del movimento, a Ferrante sta a cuore fermarsi sulle donne, anzi sulle «femmine... compitamente insieme (che) ridevano insieme e se si allontanavano di pochi metri si tenevano d'occhio per non perdersi». Femmine come «sonnolente giovenche» mentre i maschi parlavano nelle assemblee con parole infuocate. E infine, l'altro mondo opposto a quello delle femmine, oggetto del secondo libro dell'io narrante Elena, sarà il maschile, dove vige il codice della violenza, negli scontri con i nemici politici e nella sessualità. C'è una sessualità aggressiva che serpeggia nella storia, quella di un maschile laido, fatto di mani infilate sotto le gonne, contatti rubati, già trovato ne L'amore molesto, uguale nello stimato intellettuale come nel padroncino della fabbrica. Basterebbe questo libro, per dirci che dietro «Elena Ferrante» si nasconde una donna e non un uomo.