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E. M. Forster un amante inglese

Autore: Viola Papetti
Testata: Alias Il Manifesto
Data: 26 ottobre 2014

Nell’ottobre del 1912 un giovane inglese di trentatré anni E. M. Forster, chiamato Morgan, si trovava a bordo del City of Birmingham, in viaggio verso l’India. Romanziere di discreto successo, cominciava a riconoscersi come tale, ma viveva ancora con la mamma, e in solitudine sperimentava le ansie della particolare attrazione ispirata da Afrodite Urania per il proprio sesso. Se ne teneva tuttavia lontano, impaurito e incapace. A quel tempo, fra l’altro, Wilde era in carcere da diciassette anni. Sul ponte di prua Forster fece amicizia con un ufficiale inglese, Kenneth Searight, di stanza alla Frontiera del Nord, punto nevralgico dell’impero, bello e spavaldo, improvvisatore di versi sui ragazzi pathani che si offrono spontaneamente alla sodomia. «Per me è colpa del caldo’ disse Searight, e poi rise fragorosamente » – una ragione tragica e banale per quell’urgenza del sesso che Morgan avrebbe scoperto solo anni dopo. Chi racconta questi passaggi, in una biografa romanzata di Edward Morgan Forster titolata Estate Artica (traduzione di Fabio Pedone, e/o, pp. 355, €.19,50) è Damon Galgut, eminente scrittore sudafricano, bianco, classe 1963, già conosciuto da noi per tre romanzi, Il buon dottore, L’impostore, In una stanza sconosciuta. Non nuovo alle storie omosessuali, familiare a quel desiderio che oltrepassa la barriera della classe, della nazionalità, dell’eterosessualità, Galgut dipana con delicatezza la storia segreta di Morgan, e la traduzione di Fabio Pedone discretamente asseconda l’intimità della voce narrante. Ci sono pagine in cui si racconta di come, dopo una snervante cena a casa di Henry James, il giovane Morgan trovasse conforto nell’oggetto del suo desiderio: la breve visione, intravista dal treno, di due corpi di operai, scuri, nudi. «Non solo la silhouette snella che si puntellava contro il muro, ma il mondo più vasto al quale apparteneva – il buio, la sera sotto il cielo, l’odore del fumo e dei campi ». Dagli oggetti di queste visioni il mondo di Forster era irreparabilmente irreparabilmente lontano: il rituale della conversazione, della tavola, degli affetti lo teneva prigioniero. Ma al caldo sole italiano si era sentito improvvisamente diverso, si era perso in una fantasia selvaggia, Pan lo aveva insidiato ed era uscito sconvolto da quella misteriosa provocazione. Proprio queste vaghe ma impellenti ragioni fecero sì che si trovasse a bordo della City of Birmingham con la speranza di raggiungere il grande amore della sua vita, l’affascinante, grandioso indiano al quale nel 1924, dopo averci a lungo pensato, avrebbe dedicato il suo romanzo migliore, Passaggio in India: «a Syad Ross Masud e ai diciassette anni della nostra amicizia» – scrisse. Amicizia e mai amore carnale, malgrado i goffi tentativi di Morgan. Brillante oratore, effervescente di affetti, di entusiasmi amorosi, Masud (o Masood) c’era e non c’era nelle giornate indiane di Morgan. Lontanissimo dall’indimenticabile, umile, dottor Aziz del Passaggio, Masud, pur essendo avvocato aveva dato a Morgan informazioni sbagliate per la scena del processo, dormiva quando avrebbe dovuto accompagnarlo al treno, non diede il suo nome al primo figlio, e quando Forster tornò per l’ultima volta in India si fece trovare sepolto in una tomba abbandonata che il mancato amante liberò dalla sterpaglia. Eludeva sempre, e dunque deludeva. Ma sin dal suo primo apparire Masud affascinò anche Galgut, e la sua figura domina Estate Artica fino alla fine. «Syed Ross Masud era alto, ben piantato e incredibilmente bello, molto più grande dei suoi diciassette anni… Quella voce bassa disinvolta e sonora, che in realtà non attendeva mai una risposta alle proprie domande, continuò a parlare senza tregua mentre entravano e si accomodavano in salotto… Aveva l’aspetto, la voce e l’odore di un principe. Morgan, dal canto suo aveva un’apparenza stropicciata e un po’ di ripiego, che lo faceva assomigliare a una specie di bottegaio». L’artiglio crudele dell’amore non corrisposto aveva uncinato Morgan, ma anche Damon che si sentì costretto a seguirlo nella dedica del suo libro A Riyaz Ahmad Mir e ai quattordici anni della nostra amicizia. Quanto all’enigmatico titolo, Estate Artica, anche questo è un inchino al maestro e compagno di un destino simile al suo. Nel 1951 Forster aveva parlato di un romanzo Arctic Summer che non era riuscito a finire per difficoltà tecniche e che sarebbe stato pubblicato postumo nel 2003. L’anno dopo P. N. Furbank, che sarebbe diventato uno dei suoi biografi, lo intervistò insieme F. a J. H. Haskell sulla natura di quelle difficoltà e sulla ragione dell’inconsueto titolo. Forster, che era stato anche autore di una fine analisi dell’arte del romanzo (Aspects of the Novel) rispose che quella dell’estate artica è metafora di una stagione impossibile, una stagione che non avrebbe visto la fioritura attesa, nella quale l’amore non sarebbe mai corrisposto e quel gancio avrebbe continuato a dolere. Per lo scrittore, disse, le difficoltà possono essere rappresentate da una massa solida, una sorta di montagna che il racconto deve attraversare. «Quando iniziai A Passage to India – si legge sulla Paris Review del 1953 – sapevo che qualcosa di importante sarebbe accaduto nelle grotte di Marabar, che in realtà erano le Barabar Caves nella stato del Bihar, e avrebbe avuto un posto centrale nel romanzo, ma non sapevo cosa sarebbe stato… Le grotte di Marabar rappresentavano un’area in cui la concentrazione era possibile. Una cavità… Quel che avevo in Arctict Summer era qualcosa meno intenso, solo sfondo e colore...» Morgan aveva visitato le ricche Ellora Caves, ma era poi tornato nelle vuote grotte di Barabar dove l’eco alludeva a una forma possibile, una presenza misteriosa, un profilo indefinibile. Se il mistero era nel cuore delle cose, era giusto che al centro del suo romanzo ci fosse un’oscurità attorno a cui avrebbe ruotato il mondo visibile. «Disse a voce alta il proprio nome; la grotta lo ripeté all’infinito. Disse anche il nome di Masud, e la parola ‘amore’ – e tutto gli ritornò indietro in un rimbombo». Dunque, finalmente Galgut si trova a raccontare con partecipe emozione l’amore corrisposto di Morgan per il bel ragazzo egiziano incontrato a Alessandria. Mohammed el-Adl è il bigliettaio del tram che Morgan abitualmente prende. Tutto il potere è nella mano e nel portafoglio di Morgan, l’altro si trova in femminea soggezione, sentimentale, disponibile, anche se riluttante, a qualche intimità sessuale. Ma è il suo stesso potere virile, in questo caso temuto e venerato, a stregare Morgan, insieme alla dolcezza di Mohammed, alla sua povertà assoluta, alla sua fragile bellezza di tisico. E Morgan pagherà per la sua degenza, la sua famiglia, la sua morte, la sua vedova. Ne uscirà confortato dalla ferita profonda che Masud gli aveva inferto. Alla fin fine, nelle pagine di Galgut il rapporto tra Masud e Morgan diventa emblematico della impossibile convivenza storica tra inglesi e indiani. Era passato quasi un secolo dalla orrenda mattanza dell’Indian Mutiny avvenuta nel 1857, mentre era di attualità il massacro di Amritsar del 1919. L’indipendenza dell’India diventava impellente, e i migliori tra gli inglesi spingevano in questa direzione, a marce forzate. Forster colse quel prezioso momento, continuando quanto aveva auspicato Kipling (che come lui aveva antenati celtici) in Kim, tra le pagine del quale aveva seminato il suo messaggio di riconciliazione. Ma Galgut liquida sprezzantemente la figura di Kipling, non coglie quel nesso, né la dolorosa necessità di entrambi di separarsi per sempre da quel tragico continente, ferocemente materno. Davanti alla tomba di Masud, Morgan pensò per un po’, si appisolò, e fu pronto per andarsene. «Ed era poi davvero così terribile? Il giorno era caldo, si udiva il ronzio confortante delle api in un cespuglio vicino, le ombre degli uccelli passavano in picchiata sulle tombe.»