Login
Facebook
Twitter
Instagram
Newsletter

I “fondali bassi” di Ferrante

Autore: Paola Splendore
Testata: Lo Straniero
Data: 9 febbraio 2015

In una lettera non spedita a Goffredo Fofi, che dopo l’uscita del film di Martone tratto da L’amore molesto le chiedeva di parlare del suo rapporto con Napoli, Elena Ferrante ricorre  al linguaggio metaforico descrivendo la città come “prolungamento del corpo... matrice della percezione... termine di paragone di ogni esperienza”. Se in futuro dovesse tornare a scrivere di Napoli, lo farebbe con “una storia di piccole violenze miserabili, un precipizio di voci e di vicende, gesti minimi e terribili.” Ma per questo sarebbe necessario tornare a vivere a Napoli, cosa non facile per chi ne è scappata sentendosi diversa, estranea alla sua volgarità e meschinità, e tuttavia se l’è portata dietro negli anni custodendola come un’esperienza preziosa che solo a fatica ha “smesso” di sottrarre a se stessa. Forse è lì, in quel passaggio della lettera non spedita del 1995, successivamente inclusa nel volume di lettere e riflessioni sulla scrittura di Ferrante La frantumaglia (e/o 2003), che può rintracciarsi il germe originario del progetto realizzato circa venti anni dopo con la saga in quattro volumi diL’amica geniale: il primo volume, uscito nel 2011, è stato seguito con cadenza annuale da Storia del nuovo cognome, Storia di chi fugge e di chi resta e Storia della bambina perduta (tutti pubblicati da e/o). Un progetto di grande successo commerciale, in Italia e all’estero, che possiede la qualità di un romanzo popolare, nutrito non da visioni o ideologie,  ma piuttosto da quella materia paraletteraria delle passioni forti, amori e tradimenti, che Ferrante chiama i “fondali bassi del raccontare”, quello “scantinato dello scrivere, fondo pieno di piacere che per anni ho represso in nome della Letteratura”. È lì che è cresciuta la sua “smania di racconto”, e non solo sui classici. Nonostante  le filiazioni letterarie “alte” – Morante, Ortese – che talvolta le sono attribuite, la scrittura di Ferrante ha un’andatura tutta sua, di fatti e di cose concrete, che imita il flusso della vita che scorre, a volte allentando il passo, a volte correndo. Non vi si scorgono orizzonti, né voli metafisici, eppure sempre riesce a coinvolgere testa pancia e cuore di chi legge, al di là delle differenze di genere, età o etnia. La storia dell’amicizia tra due donne, Lila e Elena, narrata nelle milleottocento pagine del ciclo di L’amica geniale, mette a nudo desideri, fantasie, emozioni, invidie, rancori e gelosie, i pensieri più intimi, e le esperienze più brucianti, dalle violenze subite da padri e compagni, alle tensioni mai riconciliate con le madri. Una storia che registra ogni cosa con una lucidità priva di retorica o  cadute sentimentali, una storia che avvince, commuove, lascia senza fiato. Ed è proprio questo che mi ha catturato fin dai primi romanzi di Elena Ferrante, fin da L’amore molesto, che con il ciclo di L’amica geniale ha molto in comune, non solo o non tanto per la comunanza di dati biografici e generazionali, ma per quella sua personale qualità della scrittura, determinata in primo luogo dalla direzione dello sguardo. Uno sguardo rivolto in basso, ma capace di far volare alto chi legge.
La voce narrante in tutti e quattro i volumi appartiene a Elena, la ragazza fieramente determinata a lasciare la città in cui è nata, mentre l’altra, Lila, ambigua e sfuggente, geniale e carismatica, impastata dello spirito stesso della città, resta ancorata a Napoli come a una zavorra di malessere di cui non sa liberarsi. Eppure è lei, con la sua bellezza inquieta, il polo di attrazione e repulsione dei personaggi che entrano nella sua orbita, lei che ne governa o manipola oscuramente i destini, lei la meno assimilabile ai moduli borghesi dell’esistenza cui l’altra aspira. Lila è capace di andare al di là dell’immediatezza del reale e tangibile, durante quei suoi attacchi di nausea esistenziale in cui “all’improvviso i margini delle persone e delle cose” si dissolvono facendola sentire “smarginata” – un suo modo di staccarsi dal mondo per metterlo a fuoco ed espellerlo come corpo estraneo e violento. Lila è la forza propulsiva dell’esistenza di Elena, specchio dei suoi fallimenti, la parte di sé che Elena ha rimosso, ha allontanato, ma cui deve ricongiungersi alla fine per potere tornare intera. Nel rapporto con Lila, infine, entra in gioco il rapporto stesso con la Napoli del “rione”, del suo ambiente sociale degradato dove tutto è colluso con il potere e i soldi dei camorristi e niente si salva dal  contatto/contagio, neppure le famiglie di appartenenza, a loro volta corrotte perché comunque legate in maniera diretta o indiretta a quei soldi e a quel potere.
Il rione – parte delle nuove periferie napoletane del dopoguerra che come un’escrescenza bubbonica continuano a espandersi – con i suoi personaggi “stanziali”, famiglie dell’infima borghesia di artigiani e bottegai di tendenze per lo più monarchico-fasciste e qualche isolato comunista, con i personaggi che si allontanano e quelli che tornano, rappresenta non solo il terreno di coltura della storia delle due ragazze, ma una sorta di mise en abyme della storia italiana della seconda metà del Novecento, microcosmo del male di un’epoca. L’ultimo volume attraversa anni particolarmente duri per Napoli, segnati dallo spartiacque del terremoto del 1980, e dall’infittirsi di vecchi e nuovi problemi, l’inefficienza delle amministrazioni, il dilagare della droga, e l’aggressività sempre più sfrontata dei camorristi del quartiere, mentre insorgono i fermenti del  movimento degli studenti e delle lotte operaie, il terrorismo, la latitanza dei compagni. Aspetti tutti che entrano nella storia attraverso le decine di personaggi che ruotano intorno a  Elena e Lila e popolano le fitte pagine dei romanzi: genitori, parenti, amici, vicini di casa, di cui Ferrante indica genealogie e parentele all’inizio di ciascun volume, e di cui segue le sorti e l’inarrestabile rovina.
Nel volume conclusivo, La storia della bambina perduta, falliti i tentativi di mettere una distanza fra se stessa e Napoli, Elena, che dopo la separazione dal marito ha peregrinato per varie città italiane, torna a vivere a Napoli. Il rapporto con Lila, che negli anni ha oscillato tra dipendenza e ribellione, riprende con l’intensità degli anni dell’infanzia e dell’adolescenza, rafforzato dall’esperienza simultanea di due nuove maternità. Mentre i figli crescono in completa condivisione, Elena si libera del rapporto con Nino, il ragazzo che ha amato fin dai banchi di scuola, l’intellettuale brillante diventato un politicante nevrotico e opportunista con la fissa  del sesso. Lila resta per lei un sostegno indispensabile, non solo perché si occupa con dedizione delle sue figlie permettendole di allontanarsi spesso, per impegni legati alla carriera di scrittrice, ma perché è il raccordo necessario con quella parte di sé da sempre negata, e necessaria per riprendere a scrivere. E quando Elena alla fine del romanzo, ormai una donna di mezza età, si trasferisce nuovamente al nord per dirigere una casa editrice, Lila, duramente provata dalla misteriosa scomparsa della sua bambina, a sua volta, si eclissa chiudendosi in un dolore indicibile e non condivisibile, sottraendosi a tutti per passare intere giornate in giro per Napoli, a studiarne la topografia, come a dissolversi per le sue strade. Così, con l’autocancellazione emblematica di Lila, la storia si conclude riportandoci all’incipit del primo volume della tetralogia.
Opera femminista o forse pre-femminista, il ciclo di L’amica geniale mostra in maniera non ideologica ma nei fatti la differenza tra il maschile e il femminile nei confronti del  privato e del politico. Non so citare antecedenti nella letteratura italiana di così ampio respiro, e con l’ambizione realizzata di costruire il ritratto di una intera generazione, ma la scrittura di Elena Ferrante mi fa pensare a quella di Doris Lessing, in particolare ai cinque romanzi dei Figli della violenza, e alla sua eroina Martha Quest, seguita da adolescente a donna adulta, davanti alle grandi battaglie del suo tempo, o anche alle sezioni di Il taccuino d’oro (apparso in italiano nel 1964) sulla vita quotidiana di due amiche a Londra alla fine degli anni cinquanta, alle prese con figli che crescono senza padri e con difficoltà economiche, donne la cui vicenda personale si interseca alla grande Storia e alla crisi delle ideologie. Letture importanti per la mia generazione, che ci trovava ritratti così diversi da quelli delle eroine aristocratiche o borghesi di tanta letteratura, e un nuovo modo di vivere l’amore e l’amicizia; un nuovo approccio alla famiglia e alla sessualità. Nuove eroine dunque, che non venivano giudicate, e nemmeno offerte a modello. Così sono, mi pare, le antieroine di Elena Ferrante.