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Un giardino per crescere

Autore: Nadia Tarantini
Testata: Leggendaria
Data: 28 ottobre 2015

L’apprendistato di scrittura di Chiara Mezzalama nell’Iran di Khomeini. Una formazione sentimentale ed esistenziale.

Scrive Margaret Atwood, nel suo Passeggiando con le ombre, che le infanzie degli scrittori sono tutte differenti, ma nell’infanzia di ogni scrittore c’è stata tanta solitudine e tante letture. Ed è quel che accade alla protagonista di Il giardino persiano, romanzo autobiografico di Chiara Mezzalama. È in quel giardino, immenso per lei che ha solo dieci anni, che trova la vocazione alla scrittura, sente che la scrittura può salvarla da sofferenze e incomprensibili misteri del mondo adulto. Come ne Il giardino segreto di Frances H. Burnett, l’infanzia è il luogo dove possono comporsi, nella semplicità del gioco, terribili conflitti. Ma ne Il giardino persiano le ferite dell’infanzia non saranno cancellate da un happy end; restano a sedimento di qualcosa che, per l’autrice, rimane incomprensibile ancora oggi. E che ha prodotto, alla vigilia dell’uscita del romanzo, il suo indignato libello Voglio essere Charlie. Diario minimo di una scrittrice italiana a Parigi. È all’arrivo all’aeroporto di Teheran, nelle prime pagine de Il giardino persiano, con le valigie diplomatiche del padre ambasciatore, che l’incomprensibile si manifesta: nel pianto disperato del fratellino cui i barbuti hanno sottratto, chissà perché, le carte da gioco. Gli adulti non danno riparo all’infanzia, il padre non li ripara – anche lui sconvolto e fuori disé per l’abuso. L’incomprensibile continua nella macchina dai vetri oscurati, dalla quale si può guardare ma non si può essere visti. E si fissa per sempre nell’alta cancellata che separa dal mondo di là, un mondo che la curiosità infantile anela a possedere. Quando Chiara Mezzalana approda nella capitale iraniana con la famiglia, i barbuti di Khomeini hanno vinto da poco – l’integralismo venuto sulla scena non pare, agli osservatori occidentali, fenomeno di lunga durata. Perciò il padre porta moglie e figli a condividere una lunga, rovente estate, non pensando forse che diventerà, nella villa assegnata ai diplomatici, una reclusione. Eppure è in quella reclusione che, non senza dolori e rabbie, si compie l’alchemica trasformazione di una bambina come tante, in una futura scrittrice. Là dove i libri si devono riprendere più volte, quando se ne è consumata una prima lettura; dove il tempo che trascorre con estrema lentezza induce a riflettere, osservare, ripensare. Dove le relazioni fra il padre e la madre, chi lavora per loro, il bambino iraniano che improvvisamente appare (ma non si può sapere da dove, né come viva), suscitano in Chiara la voglia di inventare storie. Dove gli anfratti sempre nuovi del giardino, via via che passano i giorni – diventano il set di continue messe in scena. Il mistero è nella vita, i segreti ne fanno parte. La vita delle donne nell’harem ora abbandonato in un angolo del giardino. L’hammam, la stanza dei cammelli. Eplorazioni via via più audaci che non svelano solo lussureggianti nature, ma esistenze diverse, epoche inimmaginabili. E come sottofondo di ogni giornata, la personale guerra fra l’Ayatollah e chi lo osteggia, riscritta da Chiara e dal fratello Paolo. Khomeini è per loro una sorta di divinità malefica, che ha occhi dappertutto e sostituisce nella fantasia infantile l’occidentale uomo nero. Non mancano momenti di terrore, nella villa, dove pure vengono organizzati momenti di gioia e di convivialità, nonostante tutto. In pochi mesi scorre nel cuore e nella mente della bambina un’intera, particolarissima formazione ai sentimenti e al destino di cui Il giardino persiano racconta. Ho avuto la fortuna di scoprire la scrittura di Chiara Mezzalama dieci anni fa, quando con Silvana Maja preparavamo la raccolta di racconti Allupa Allupa. Mi sorprese il periodare chiaro, che ben nascondeva le pieghe ombrose della storia – fino allo stupefacente finale – di “Prurito”. Quando seppi che nella sua vita di ogni giorno faceva la psicoterapeuta, attribuii quella speciale qualità al suo mestiere. Ma presto, con Avrò cura di te, Chiara mi stupì un’altra volta, con una storia che sarebbe stata esile se non avesse saputo sondare tutte le profondità della relazione fra le due protagoniste. E di nuovo era la scrittura, questa sua scrittura che sembra niente e parla insieme a cuore e cervello, che ti porta per mano a rispecchiarti in maniera indelebile con le emozioni del racconto. Ora Chiara ha preso una decisione – da un anno ha lasciato i/le pazienti ed è volata a Parigi con la figlia e il figlio (nove e sei anni, l’età che avevano lei e suo fratello Paolo quando furono portati a Teheran). Qui ha ben presto raccontato, in un diario in francese, la sua esperienza di «scrittura e movimento: è molto interessante avventurarsi in un’altra lingua», dice; «i grandi cambiamenti si portano dietro anche la geografia». Poi, trovandosi ad abitare a due passi dalla redazione di Charlie Hebdo, ha scritto il diario estemporaneo della sua indignazione per l’attentato del gennaio scorso. Anche Leggendaria ha avuto un po’ di merito nella sua decisione di dedicarsi solo alla scrittura, con il romanzo a tre mani pubblicato a puntate e ora divenuto un Leggendario librino.