L’ANNIVERSARIO
Abbiamo un detto qui. Ne ver’ne bojsja ne prosi. Non fidarti, non temere, non pregare. Non fidarti di nessun uomo in uniforme, più fiducia riponi nelle autorità più farà male quando ti fotteranno. E non temere, non servirà a cambiare le cose. Quel che deve succedere succede comunque. E non pregare. Non funziona mai. Nessuno ha mai pregato per uscire da Sizo-1 perciò non sacrificare la tua dignità cedendo a false promesse”. Parliamo con Ben Stewart, il capo della comunicazione di Greenpeace, due anni dopo l’arresto e la liberazione degli Arctic 30, gli attivisti che avevano trascorso due mesi nelle prigioni russe a causa della protesta pacifica contro una piattaforma petrolifera di Gazprom nell’Artico. Circa un anno fa stava per andare in vacanza con la sua fidanzata quando gli fu commissionato un lavoro: scrivere un libro per raccontare cosa fosse davvero successo tra settembre e novembre del 2013. “Così – racconta Stewart al Fatto Quotidiano ho trascorso quattro settimane in albergo per raccontare la loro storia nel libro ‘Non Fidarti, non temere, non pregare’”.
L’assalto (fallito) a Gazprom
In una sera di settembre del 2013, Stewart era in un pub a bere una birra con un amico quando ricevette una telefonata. “Era Frank, il capo della spedizione. Disse che aveva pochi minuti, che non erano riusciti a terminare l’azione dimostrativa, che soldati russi armati e incappucciati li tenevano in ostaggio, che li avrebbero condotti a Murmansk. Rischiavano di essere accusati di pirateria”. Poi cadde la linea. In tutti gli uffici europei di Greenpeace si iniziò a lavorare anche 16 ore al giorno. Giornalisti, avvocati. Era importante ostacolare la propaganda russa e diffondere il messaggio sulla protezione dell’Artico. “Ci riunivamo in quella che chiamavamo la Sala da Ballo o Stanza delle angosce. Avevamo paura. Decidemmo di non indirizzare la campagna contro Putin ma di concentrarci su Gazprom, un suo prolungamento”.
È il 18 settembre 2013. Gli attivisti di Greenpeace, a bordo della Arctic Sunrise (una grande nave verde con un arcobaleno disegnato su un lato, batte bandiera olandese) raggiungono la piattaforma petrolifera Prirazlomnaya, dell’azienda di Stato russa Gazprom. Vogliono arrampicarsi per esporre lo striscione “Save the Arctic”, salviamo l’Artico. Nonostante abbiano comunicato via radio le loro intenzioni, le autorità russe reagiscono in modo inaspettato. Getti d’acqua gelida, inseguimenti in mare e colpi di mitra. Gli attivisti abbandonano i gommoni e tornano sulla Arctic Sunrise. Due vengono fermati. Passanno meno di 24 ore: soldati russi, passamontagna e mitra, sono scaricati sulla nave da un elicottero. Prendono in ostaggio gli attivisti che li accolgono con le mani alzate. Li privano dei dispositivi elettronici. Sotto i passamontagna si nascondono giovani stanchi e provati, che si entusiasmano alla vista di un iPhone o si lasciano tentare dai pancake che gli attivisti offrono loro per distendere l’atmosfera. “In un primo momento, ci sentimmo in colpa – racconta al Fatto Stewart Tutti in Greenpeace ci chiedemmo: come abbiamo potuto essere così naif da credere di poter scalare una piattaforma russa senza conseguenze?”. Sbarcati a Murmansk, i trenta attivisti vengono portati in prigione, Sizo-1, un vecchio manicomio in attesa del processo. “Si oscillava tra l’accusa pirateria a quella di vandalismo – racconta Stewart – Putin era sicuro che fossero agenti dei servizi segreti, occidentali collusi con le società petrolifere americane che cercavano di destabilizzare la Russia”. Iniziò anche a circolare la notizia che sulla nave avessero trovato cocaina e morfina. “Abbiamo dovuto lottare con tutte le nostre forze per contrastare la campagna diffamatoria del Cremlino”.
La guerra mediatica contro il Cremlino
Greenpeace si trova a combattere sue battaglie: quella esterna, tra media e tribunali, e quella umana delle celle. Frank, il capo della spedizione, ha attacchi di panico. Phil per settimane custodisce nella suola della scarpa la memory card che contiene le immagini dell’assalto russo alla nave. Dima, padre e nonno prigionieri durante il regime comunista, vive la prigione come una storia di famiglia, Alex e Camila si chiedono se riusciranno ad avere figli, Sini, che è vegana, affronta il dramma delle patate. Gliene portano nove al giorno. Non riesce a mangiarle tutte, se le butta rischia di essere spedita in isolamento. La sua cella sarà a lungo un cimitero di tuberi dall’odore nauseante. Riuscirà a farli finire in cortile lanciandoli dalla finestra rotta, affinando la traiettoria.
“Le celle – racconta Stewart – di notte venivano collegate tramite la Doroga (la strada), un sistema di corde e calzini che si sviluppava sulla parete esterna e che permetteva di far transitare da una cella all’altra oggetti e messaggi”. I boss del carcere, prigionieri che hanno potere anche sulle guardie, sono dalla parte degli Arctic 30. Il loro ordine è che gli attivisti di Greenpeace siano trattati con rispetto: “Siete alti nella gerarchia criminale – spiega loro un prigioniero – perché siete vittime di un’ingiustizia da parte del governo. Sapevamo che sareste arrivati qui. Lo sapevamo ancora prima del giudice”. Ma non sapevano che sarebbero stati liberati il 23 novembre 2013, con il pagamento di una cauzione.
“A fare la differenza – racconta Stewart – è stata la risonanza globale: avevamo deciso di trasmettere in diretta la campagna di protesta, con Twitter e le riprese in soggettiva. Gli Arctic 30 sono diventati come una rock band, hanno generato una reazione mondiale”. La prigione russa, però, li ha provati. Molti non si sono ripresi.
La rivoluzione ha bisogno di tempo
Dopo due anni, resta la convinzione che quell’azione andasse fatta. “L’attivismo è una rivoluzione lenta, un atto di resistenza che è difficile far notare. Se si pensa al cambiamento climatico ci si accorge che nonostante tutti ne condividano i timori, è percepito come così lontano nel tempo da creare disinteresse. Il mio compito è far sapere che c’è chi si è fatto arrestare per questo”.
E l’Artico? “Siamo ottimisti. La Russia ha commesso un grande errore, anche diplomatico, perché si è sentita minacciata. La corte dell’Aja ad agosto l’ha condannata per violazione del diritto internazionale. Ma ormai le compagnie petrolifere stanno abbandonando l’Artico, Gazprom per prima, perché non hanno ricavato quanto si aspettavano. La tecnologia si sta sviluppando sempre di più come il ricorso alle energie rinnovabili. Pochi anni e falliranno tutte. A meno che non si adeguino al cambiamento”.