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Allah non è mica obbligato

Autore: Nicolò Sorriga
Testata: paginedilibri.com
Data: 9 marzo 2009

Lo spettacolo della guerra. Sì. In questo tempo di distanze annullate dai progressi tecnologici dell’informazione, anche la guerra è diventata un evento da poter seguire minuto per minuto. Il pubblico pagante ha potuto assistere in diretta, dal proprio divano, al primo bombardamento dell’Iraq nel 1991 e successivamente, durante l’orario dei pasti o nel dopo cena, a migliaia di immagini che i media hanno trasmesso raccontando i drammi della Jugoslavia, del Kosovo, dell’Afghanistan e ancora dell’Iraq, della Georgia, di Gaza e tanti, tanti altri ancora. C’era, all’inizio di questo nuovo modo di raccontare gli eventi bellici, una naturale inesperienza da parte dei media, ma oggi, con il passare del tempo (e delle guerre) possiamo assistere ad interviste e dibattiti trasmessi dal campo, immagini nitide e dettagliate gettate in pasto al pubblico in tempo reale ed ovviamente, immancabili, i consigli per gli acquisti che smorzano la tensione di fotogrammi difficili da digerire. Le immagini e le notizie che in tutti questi anni hanno affollato televisioni, giornali ed Internet, possono apparire tremendamente simili le une alle altre, fino al punto preoccupante di non suscitare più emozioni in chi le riceve; come a dire: la guerra è guerra, una casa bombardata è distrutta in Iraq così come a Sarajevo, un corpo dilaniato in un mercato è dannatamente simile a ciò che rimane tra le polveri di un campo minato. Eppure, in una continua stagione di guerre mai stanche di essere combattute, nonostante la grande attenzione dei media, dei giornalisti e reporters coraggiosi e preparati, forse non ci si rende conto che le guerre non sono tutte uguali.

Un occhio nemmeno troppo attento ma ancora capace di aprirsi, indignarsi o versare una lacrima, potrà accorgersi che quel corpo mozzicato dalle bombe non è lo stesso corpo appeso ad una corda a migliaia di chilometri di distanza, quella casa crollata non è la stessa casa frantumata da un aereo dall’altra parte di un continente. Le guerre non sono tutte uguali, i morti sono sempre diversi, ma c’è un elemento che segna un discrimine fondamentale: ci sono guerre più importanti e guerre meno degne di attenzioni. Ogni guerra è mossa da interessi spesso economici e geopolitici che al loro interno ne conservano decine e centinaia come in un folle gioco di scatole cinesi. Le motivazioni ufficiali di chi si investe del ruolo di buono (di solito tutti i contendenti: le guerre le fanno i buoni e tendenzialmente tutti hanno Dio dalla loro parte…), ad un’attenta analisi lasciano il tempo che trovano. Solitamente le guerre considerate meno importanti da chi dovrebbe raccontarle, sono quelle più lontane dal calderone occidentale, democratico, civile ecc… e per quanto riguarda le motivazioni o le parti in causa, o non interessano assolutamente le grandi potenze dove operano le sedi dei più importanti network, oppure gli interessi sono così tanti e così poco dicibili che il silenzio è considerata la migliore delle operazioni politiche e mediatiche. Nel mondo si combattono oggi decine di guerre, molte delle quali poco o per niente “pubblicizzate” dai media e dall’informazione di massa. In tutti i continenti ogni giorno si combatte: Europa, Asia, Sud America, Medio Oriente, Africa. L’Africa. Una terra immensa, di devastante bellezza e devastata negli ultimi decenni da decine e decine di guerre che si susseguono senza soluzione di continuità. Oggi l’Africa brucia in Darfur, Nigeria, Kenia, Somalia, Ciad, Algeria, Uganda, R.D. Congo, Rep. Centrafricana, Etiopia.

La storia che si snoda lungo le pagine di Allah non è mica obbligato, racconta una delle tante guerre dimenticate dell’Africa. Siamo guidati, attraverso il racconto incalzante e a volte straordinariamente ironico del protagonista e narratore Birahima, in un triangolo di lotte tribali senza tregua tra Costa d’Avorio, Liberia e Sierra Leone. In questi paesi, nei primi anni novanta, (mentre le telecamere erano tutte puntate sull’Iraq e la Jugoslavia) si sono consumate lotte fratricide che hanno piegato e piagato la storia di popoli e di generazioni. Birahima ci racconta che le guerre per il potere in queste terre sono guidate da personaggi regolarmente scalzati da altri uguali per interessi e violenza. Sono guerre che si combattono nelle foreste, con eserciti non regolari in un tutti contro tutti che ha come denominatore comune l’efferatezza e la naturalezza sconvolgente con cui si uccidono donne, uomini e bambini considerati di altre etnie rispetto alla propria, e per questo pericolose. I bambini. Sono loro al centro della storia, sempre. Lo sono perché Birahima, prima di prenderci per mano e guidarci nelle foreste africane, ci dice che ha dieci, forse dodici anni. Birahima è un bambino-soldato che dopo essere rimasto orfano si mette alla ricerca di una zia e finisce per unire il suo percorso di ricerca agli spostamenti delle truppe di guerriglieri prima in Liberia e poi in Sierra Leone. Birahima ci porta nella sua storia di bambino di strada e poi, accompagnato dal patrigno-stregone Yacuba, tra schiere dei combattenti. Si apre, agli occhi di chi legge, una storia incredibile dov’è raccontata la vita dei bambini-soldato negli accampamenti, nei nascondigli della guerriglia dove vengono trattati con maggiore cura rispetto ai semplici soldati perché sono pedine rapide e fondamentali nelle ricognizioni e durante gli attacchi a colpi di Kalashnikov, quando vengono fatti drogare per perdere qualsiasi inibizione di fronte all’obiettivo. Sì, perché l’obiettivo, ogni volta, sono altri bambini-soldato che un’assurda storia ha messo dall’altra parte della barricata.

A raccontare tutto questo è un bambino, soldato ma pur sempre bambino, con il suo ritmo veloce, incalzante, senza pause; la lingua che Kourouma fa parlare a Birahima è un impasto di francese e pidgin che si sovrappongono per creare effetti narrativi potenti, realistici e molto spesso ironici. In questo racconto c’è infatti una feroce e disincantata satira nei confronti dell’Africa che Birahima si trova ad attraversare da protagonista e che, come tutti i bambini-soldato, si sente uomo nel vortice illusorio che nasce dal potere di decidere sulla vita e la morte del fratello che incontra ad ogni villaggio. Ci sono poi tante storie nella storia, come quelle dei bambini e delle bambine-soldato che cadono sul campo e che Birahima ricorda in orazioni funebri, snocciolando le loro vicende, le violenze subite, i perché di percorsi che li hanno portati a combattere, indossando divise improvvisate ed improbabili gradi da capitani, tenenti e colonelli. Sullo sfondo della sua narrazione, Birahima traccia i reali eventi politici che hanno segnato la storia recente della Liberia e della Sierra Leone, facendo intuire, con tono a volte sarcastico, come il potere dei vari colonelli e dittatori di turno sia appoggiato da altri Stati africani che le istituzioni internazionali conoscono bene, perché con questi intrattengono rapporti economici e di scambio commerciale. Ecco che spunta qua e là il Colonello Gheddafi o le imbalsamate forze di interposizione mandate dalla Nigeria sulla spinta dell’ONU. Il titolo completo di questo libro, dice Birahima, è Allah non è mica obbligato ad essere giusto in tutte le sue cose di quaggiù, ma si ha la sensazione che al posto di Allah potrebbe esserci tranquillamente anche il Dio dei cristiani o un qualche spirito venerato dai guerriglieri.

Non c’è religione in queste guerre tribali; c’è piuttosto una religiosità primitiva dove stregoni e singolari capi guerriglia gestiscono una particolare forma di potere temporale e spirituale, costruiscono amuleti per trasformare le pallottole nemiche in acqua, leggono il Corano, recitano passi della Bibbia, esorcizzano, scacciano le anime che interferiscono con l’operato dei guerriglieri e benedicono sacrifici e dita pronte a premere il grilletto. Gli eventi e le storie che Birahima racconta (attraverso la penna eccellente di Kourouma) sono di una violenza che le nostre televisioni non sono solite mostrare e che il popolo da divano occidentale non è abituato a vedere. Eppure, questo racconto ha il dono della leggerezza della narrazione che aiuta ad imbattersi con realtà atroci. Il senso d’ingiustizia, la conspevolezza dell’assurdità si alimenta ad ogni pagina, ma la voce di Birahima, che conserva nelle parole la semplicità e l’ironia che è dei bambini, attutisce l’impatto con un mondo dove il confine tra le ragioni dei gruppi si confondono e la moneta di scambio sono diamanti e Kalashnikov. C’è tutto questo e tante altre storie nel “casino al quadrato” che Birahima ci mostra attraversando L’Africa delle guerre tribali; un’Africa che non viene raccontata abbastanza sulle sponde del primo (?) mondo, che torna in documenti ed immagini televisive quando forse l’orario spinge la maggioranza ad andare a letto; un continente lacerato ogni giorno da conflitti che si alimentano anche del silenzio della cronaca; una terra che vede i propri bambini, costretti dalla povertà, ad una facile scelta di illusoria rivalsa nelle foreste della guerra. Questo libro non è una novità editoriale: è stato pubblicato in Italia nel 2004, ma racconta ciò che accade oggi, racconta tutte quelle storie che spesso vengono taciute e che invece esistono, in questo momento, in questo preciso istante, quando migliaia di bambini si preparano a caricare i loro fucili per dare la caccia ai propri fratelli.