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"Così tingo di noir il mio Monet"

Autore: Anais Ginori
Testata: La Repubblica
Data: 9 agosto 2016

PARIGI «Ho cercato di scrivere per piccoli tocchi, attraverso colori, atmosfere, in modo che il lettore sia immerso lentamente e veda il quadro completo soltanto alla fine». “Ninfee nere è un romanzo impressionista. Non solo perché è ambientato a Giverny, nel paesino normanno che fu la casa di Monet, dove si dipana la trama: le indagini intorno all’omicidio di un chirurgo oftalmologo trovato ucciso con un bizzarro rituale vicino al ruscello fatto deviare dal pittore per alimentare il laghetto delle sue celebri ninfee. Michel Bussi ha costruito un libro che non è un noir, non è una storia d’amore, anche se assomiglia a entrambi. «Ognuno può interpretare il romanzo a modo suo, esattamente come accade per le tele impressioniste». Bussi, 51 anni, è uno degli scrittori più venduti in Francia, tradotto in più di 30 lingue, anche se per questo professore di geografia a Rouen e direttore di ricerca al Cnrs il successo letterario è arrivato relativamente tardi, quando aveva già quarant’anni. Nato a Louviers, nell’Alta Normandia, ha ambientato molti dei suoi libri nella regione, con qualche eccezione come per l’ultimo Le temps est assassin, che si svolge in Corsica. In Francia viene considerato come un maestro del suspense e del twist, il finale a sorpresa.

Giverny è stata una scelta obbligata per “Ninfee nere”?

«È un libro che parla di una bambina immensamente dotata per pittura. Giverny mi è sembrata la scelta ideale per via dell’evocazione di Monet e dell’arte. Quello che pure mi serviva era un luogo con una dimensione un po’ chiusa, opprimente, che provoca desiderio di fuga. Giverny, come tanti paesini di provincia, può apparire come una trappola per chi ci abita. Il libro comunque ha fatto del bene alla città. Dopo il successo di Ninfee nere, l’ufficio del turismo organizza un percorso sui luoghi del romanzo».

Lei non vuole definirlo un poliziesco. Allora cos’è?

«Comincia con un omicidio, c’è un ispettore che indaga, e ha un finale a sorpresa, quindi è vero che potrebbe sembrare un giallo. Ma prima di tutto è una storia d’amore che si svolge nell’universo artistico di Monet, quindi c’è anche un lato poetico, emotivo. Diciamo che Ninfee nere è una combinazione di diversi generi. Ho utilizzato la costruzione di un romanzo noir per farne un’altra cosa. In fondo volevo parlare del tragico destino di un donna. L’omicidio in sé importa poco».

È un romanzo molto femminile?

«Per chi non è interessato alla trama in sé, al genere poliziesco, c’è una lettura del romanzo più profonda, empatica, appunto femminile. Molte lettrici si sono identificate con la protagonista, Stéphanie, con la sua nostalgia, i suoi rimpianti per un marito che non ama, la metafora di un angelo che uccide intorno a lei. C’è una sorta di bovarismo rivisitato. Il romanzo è stato pubblicato nel 2011 ma ancora oggi ho delle lettrici per cui rimane il loro libro preferito, c’è una sorta di culto che mi ha sorpreso».

Flaubert, normanno come lei, è stato un motivo di ispirazione?

«Non vorrei fare paragoni, sembrerebbe esagerato. Senza risalire a grandi scrittori come Flaubert e Maupassant, è vero che c’è una tradizione letteraria francese secondo la quale i romanzi sono molto radicati sul territorio. E a me viene più facile scrivere storie ambientate nella mia regione, anche se ho fatto libri anche in altri luoghi della Francia. La Normandia rimanda a un immaginario di piccola provincia nella quale ci si annoia molto, dove possono accadere cose tremende tra persone anonime che sognano un grande destino. È il paesaggio della malinconia, forse anche per il contrasto tra povertà economica e bellezza naturalistica».

Da dove viene la sua passione per i finali a sorpresa?

«È una tradizione anglosassone, ancora poco usata in Francia. L’ho imparato da tanti autori, ma anche dal cinema. Non ho un modello. Di sicuro mi piace trascinare il lettore in territori sconosciuti, laddove non ha certezze. E questo fino alla fine. Quando apre un mio libro entra in una sorta di gioco di seduzione, ma anche dentro a un enigma da risolvere. Io mi diverto a disseminare indizi per trovare la soluzione. Nei miei romanzi il lettore è attivo, non si fa manipolare. È complice del narratore».

Essere professore di geografia l’aiuta nella scrittura?

«Il fatto di essere uno studioso di scienze umanistiche mi permette di congegnare le trame dei miei libri come ingranaggi precisi. È un lato cartesiano molto utile nella costruzione dei romanzi. Inoltre il fatto di essere un geografo mi aiuta nella scelta dei luoghi, ho una conoscenza sociologica del territorio. Come tutti i romanzieri invento, ma traendo ispirazione dal mio lavoro di ricerca quasi scientifico che mi permette forse di dare basi più solide a storie e personaggi».

Ha pensato di lasciare l’università per dedicarsi solo alla letteratura?

«Grazie al successo dei miei libri di fiction, forse potrei anche permettermi di non fare più il doppio lavoro. Ma per me l’università è una passione che mi regala molte cose. La ricerca accademica è indispensabile per alimentare il mio immaginario. Non saprei rinunciare a quest’attività. Tra l’altro, non sono l’unico: tanti romanzieri hanno continuato il lavoro accademico. In Italia, Umberto Eco era uno di questi. Mi considero un intellettuale impegnato, che non vuole passare il tempo recluso in casa a scrivere, ma agisce nella società e riflette insieme agli altri».

È anche un autore prolifico. Non smette mai di scrivere?

«Per paradosso, ho la fortuna di aver trovato tardi un editore. Per anni, ho scritto senza avere mai nessuno che mi voleva pubblicare. Mandavo proposte e ricevevo solo risposte negative. Poi nel 2011, con l’editore “Presse de la Cité, è arrivato il successo, ed è cambiato tutto. Ora mi ritrovo con cassetti pieni dei tanti manoscritti e di progetti di libri di quando non ero ancora uno scrittore riconosciuto. Quindi attingo a questa riserva e riesco a pubblicare un nuovo libro ogni due anni, anche meno. Effettivamente non mi è mai capitato di finire un romanzo senza sapere ciò che avrei scritto dopo. Anche ora che ho finito Le temps est assassin sto già lavorando al mio prossimo romanzo. Recupero il tempo perso, o meglio quello in cui nessuno voleva pubblicarmi».