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Dalla voce di Ahmadou Kourouma

Autore: GERALDINA COLOTTI
Testata: Il Manifesto
Data: 25 giugno 2003

Incontro con lo scrittore ivoriano, alla finale del Grinzane Cavour con il romanzo «Allah non è mica obbligato»

Ha l'eloquio del griot e l'occhio del cacciatore, è alto e dinoccolato: così si presenta lo scrittore ivoriano Ahmadou Kourouma, vecchio cacciatore malinké, ex matematico, arrivato a Torino dove è avvenuta la consegna del premio Grinzane Cavour. Il suo romanzo Allah non è mica obbligato figura nella terna di narrativa straniera ed è stato pubblicato da e/o, come il precedente Aspettando il voto delle bestie selvagge. Dal 1970, con I soli delle indipendenze (Jaca Book), Kourouma racconta i drammi della società africana post coloniale e le aspettative deluse delle lotte di liberazione anni `60. Aspettando il voto delle bestie selvagge è il viaggio iniziatico di un despota nel «continente più ricco di povertà e dittature». Allah non è mica obbligato racconta la visita del dodicenne Birahima nell'inferno dei bambini soldato: due parti di un affresco satirico su un'Africa ancora terra di rapina, simbolo quasi archetipico dei guasti del potere e dei mali del mondo.

I suoi romanzi sono fortemente intrisi di storia e politica. Qual è la sua idea di letteratura?

Come scrittore non intendo coincidere con la scrittura, con la ricerca della forma, bensì con i problemi che pongo, che intendo far conoscere: la colonizzazione, la guerra fredda, il presente.

Eppure proprio la sua scrittura è decisamente innovativa, un riuscito impasto di oralità e francese ibridato dal dialetto africano. Il racconto di Birahima, il bambino soldato, ha la sua forza soprattutto nella lingua, ritmata dal turpiloquio in p'tit nègre (il francese storpiato in Africa), dal pidgin, (il corrispettivo nell'Africa anglofona) e dal francese colto. Il bambino spiega ogni volta i termini servendosi di quattro dizionari diversi, creando un effetto comico-grottesco che cattura il lettore.

Sì, ma la mia è una ricerca finalizzata a esprimere meglio un contenuto, è una necessità. Nella nostra regione usiamo il francese perché la nostra lingua materna non riguarda tutti gli africani: io parlo il malinké, chi è in Senegal il wolof e via dicendo. Per comunicare fra noi abbiamo il francese, una lingua che resterà anche quando smetteranno di provare a colonizzarci. La terremo perché ci serve, come ha fatto il Brasile col portoghese. Ma non è la nostra lingua materna, non sa esprimere certi nostri sentimenti, i concetti animisti che sono alla base della nostra cultura; né il malinké o il wolof contengono all'origine concetti propri della religione cattolica o della cultura europea. Per come stanno le cose oggi, bisogna prendere dalla nostra lingua materna alcune parole e metterle nel francese e viceversa. Una lingua cambia in funzione dello sviluppo storico. A Parigi il francese si sta trasformando, ibridato dal gergo delle immigrazioni. In Africa, cambia perché cerchiamo le parole per dire i sentimenti, la nostra storia e la nostra identità.

Ironia, mito, sguardo di bambino: sono questi i temi che ritornano anche in altri romanzi di scrittori africani conosciuti in occidente. Alcuni giovani, nati dopo il 1960, sembrano invece insofferenti a un passato di «negritudine» e alla sua stessa definizione. Preferiscono riferirsi alla grande letteratura francese o europea. Lei cosa ne pensa?

Io ritrovo sguardi, territori e temi comuni anche in alcuni giovani che pubblicano in Costa d'Avorio o per piccolissime case editrici francesi, e che mi inviano i loro lavori. Ma non so se si debba parlare di un paradigma, anche perché i paesi africani sono talmente poveri che non organizzano seminari, e noi scrittori ci incontriamo solo quando ci invitano in Europa. Difficile confrontarci, creare scuole, tendenze. Quando scrivo, non mi pongo problemi di modello o di definizione, mi interessano il tema e il risultato. In questo senso potrei dire che Céline è stato un riferimento, ha dovuto affrontare lo stesso mio problema: ha voluto mettere in pagina il «petit français» parigino parlato, mentre io ho voluto far uscire dall'oralità il linguaggio malinké.

Ai tempi di Fanon il ruolo dell'intellettuale africano è stato quello di educare e spingere all'azione. E oggi? A lei hanno proposto di presiedere la commissione incaricata di definire i modi della riconciliazione in Costa d'Avorio, secondo il modello delle commissioni sudafricane.

Penso che il mio paese debba rinegoziare il potere su basi condivise mediante una conferenza nazionale, ma ho rifiutato di far parte di quella commissione: sono uno scrittore, non un politico o un militare capace di far fronte agli squadroni della morte che oggi uccidono gli oppositori. Il compito dell'intellettuale africano, anzi il mio compito, oggi è quello di far conoscere i problemi attraverso la letteratura. I francesi sono stati colonizzati per quattro anni e continuano a parlarne. E noi, allora? Ieri, le grandi potenze ci hanno consegnato, mani e piedi legati, ai dittatori, oggi gli interessi occidentali si servono anche di gruppi etnici che sembrano essere utili. E continuiamo a pagare i costi di una spartizione dell'Africa compiuta secondo criteri coloniali, incurante delle appartenenze etniche e dei confini naturali. Nei mei romanzi mostro come dietro le cosiddette guerre tribali o religiose ci siano problemi concreti, e interessi capitalistici occidentali: il petrolio in Nigeria, il cui possesso consentirebbe agli Usa di emanciparsi da quello dell'Arabia Saudita, i diamanti in Sierra Leone...

La Costa d'Avorio è squassata da conflitti etnici, religiosi e tribali. Come mai, sulla base del ritorno all'ivoirité, ovvero a un'identità dimostrabile con ascendenze certe, ci sono state persecuzioni razziali e espulsioni di massa? Lei è stato pubblicamente attaccato per aver denunciato la natura razzista di quella legge.

Pensavamo che il tribalismo da noi fosse risolto, invece è esploso violentemente intorno al problema dell'ivoirité e alla legge di cittadinanza che esclude dai diritti principali chi non sia un ivoriano «autentico». Un problema solo in parte identitario e razziale, che si spiega guardando al particolare sviluppo storico ed economico della Costa d'Avorio. Nell'epoca dei due blocchi, il paese era una roccaforte stabile del capitalismo statunitense e francese. Dopo l'indipendenza, sotto la guida di Felix Huophouet-Boigny, il presidente-medico di cui parlo in Aspettando il voto delle bestie selvagge che ha diretto per trent'anni il paese, la Costa d'Avorio è diventata il primo produttore mondiale di cacao, il secondo di caffè. Huophouet-Boigny, pur definendosi un capitalista puro, aveva puntato tutto sull'economia locale, come nel vicino e odiato Bourkina Faso, di fede marxista. Per popolare il paese e incrementare l'agricoltura, Huophouet aveva stimolato l'immigrazione concedendo la doppia cittadinanza e la terra a chi l'avesse lavorata. Alla sua morte, e a seguito della mutata congiuntura economica internazionale e interna, il paese è precipitato nella crisi. Dal '93 a oggi, il prezzo del caffè - comunque controllato da Londra, perché la ricchezza dell'Africa non torna mai all'Africa - è crollato. Molti ivoriani hanno perso il posto di lavoro, compresi quelli impiegati nell'amministrazione, che hanno preteso di tornare in possesso delle terre date agli immigrati. Il successore di Huophouet -Boigny, Bedié, espressione del sud cristiano, ha giocato la politica dell'ivoirité contro le regioni povere del nord: il nord immigrato, musulmano e di origine mista. Ma anche la questione religiosa è un pretesto.

«Allah non è mica obbligato a essere giusto in tutte le sue cose di quaggiù», dice Birahima a ogni atrocità vissuta e compiuta. E accanto ha sempre il furbo stregone musulmano Yacuba. Dell'islam africano si sa ancora poco in occidente, ma l'intreccio fra appartenenza etnica e fondamentalismo appare come una miscela esplosiva e in crescita. In che misura il fondamentalismo trae linfa dal ritorno all'islam, che dagli anni `80 dilaga in tutta l'Africa subsahariana?

Io nasco musulmano, ma non sono credente. Se, però, vivo nel mio paese divento «praticante». Entro in un sistema di relazioni e di pratiche islamiche che, come in Mali o in Ghana, fanno parte da secoli del nostro tessuto sociale e che, come le confraternite sufi, cementano il legame solidaristico e comunitario. Ma, prima di tutto, l'Africa è animista, e sia l'islam che il cristianesimo ne sono impregnati. L'animismo è una religione naturale tollerante, inclusiva, non ha bisogno di fondamentalismi. Sono propenso a credere che quel versante del fondamentalismo che vuole incappucciare le donne e lapidarle sia una costruzione artificiale. Siamo in tanti, in Africa, a pensare che se il potere oggi fosse dato in mano alle donne, da sempre conduttrici dell'economia sotterranea del nostro tessuto sociale, le cose andrebbero molto meglio.

La storia dell'Africa poggia nel mito, nella magia e nell'oralità; elementi che lei, al tempo stesso, desacralizza e insieme valorizza nei suoi romanzi.

I nostri miti vanno scomparendo, cerco di farli rivivere nella scrittura, perché quando un mito muore è tutta una parte dell'umanità che se ne va. Per esempio, ho inventato Macledio, l'intellettuale di Aspettando il voto delle bestie selvagge per fargli incarnare il mito africano secondo cui se uno non riesce a realizzarsi nella vita è perché non ha ancora trovato il suo «uomo del destino».