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Antaya, il nome della speranza nel buio della prigione

Autore: Gabriel Bertinetto
Testata: l'Unità
Data: 2 settembre 2009

Daniele Mastrogiacomo racconta i giorni del suo sequestro la vita con i talebani, il panico, la fede cieca dei carcerieri E il drammatico destino dei suoi collaboratori afghani

Salvato da una figlia mai nata. La trattativa per liberare Daniele Mastrogiacomo iniziò nel nome di Antaya, la bambina che l’inviato di Repubblica e la moglie avevano un tempo desiderato di mettere al mondo. Per avere la certezza di non finire preda degli sciacalli, le persone che cercavano di liberarlo dai talebani, chiesero ai rapitori un segnale di esistenza in vita: farsi dire dall’ostaggio quella parola così intima e segreta che solo lui e nessun altro poteva conoscere in tutto l’Afghanistan.

Delle 190 pagine dei «Giorni della paura», racconto autobiografico del sequestro subito dal giornalista vicino Kandahar nel 2007, quella dedicata ad Antaya ha la leggerezza di un sospiro di sollievo. Riconcilia con la vita sapere che quel suono dolce, evocativo di una creatura vissuta solo nelle fantasie d’amore dei suoi ipotetici genitori, una notte sovrastò l’odio ed il dolore, la violenza e l’angoscia, il cinismo e lo sconforto. Dalle colline di sabbia, dagli anfratti scavati nel terreno, dai fuochi del bivacco, «esplode un boato che rimbomba tra le pareti del nostro rifugio all’aria aperta. Antaya! Antaya!», ricorda Mastrogiacomo. Gridano quel nome i carcerieri, «felici, quasi fosse un compleanno». Lui piange, commosso. Per qualche istante la determinata ferocia degli aguzzini e la disperazione delle vittime si sciolgono nella dolce ipotesi di un’umanità diversa.

Diversa da quella che sventuratamenteconobbero il giornalista italiano, sopravvissuto, e i due collaboratori afghani, trucidati dai sequestratori. Recatisi sul luogo di quello che si illudevano fosse l’appuntamento conuno scoop clamoroso, i tre trovaronoad attenderlinon il presunto capo talebano disposto a farsi intervistare, mauna banda di giovani armati e minacciosamente ostili. Una settimana più tardi, nel pieno della disavventura, Mastrogiacomo si ritrovava a pensare all’assurdità della situazione in cui era piombato: «Faccio esattamente quello che avrei voluto fare. Sono finalmente in mezzo a un gruppo di mujaheddin talebani. Vivo, parlo, mangio, dormo con loro. Sto andando ben oltre una semplice intervista. Ma lo faccio ad un prezzo altissimo: sono un ostaggio che ancora non sa se ne uscirà vivo». Ondatedi panico Scorrono attraverso la narrazione quelle stesse «ondate di panico» da cui il protagonista veniva investito più volte nell’arco della stessa giornata, alternate a subitanei accessi di euforica speranza.

Il lettore, che non ha condiviso quei momenti, e non è arrivato come l’autore sin sulla soglia di un assassinio che ormai credeva imminente, sente volare su di sé una sorta di panico freddo, razionale, quando si vede sfilare davanti agli occhi le figure umane descritte nel libro: uomini e ragazzi mossi da una fede cieca nella bontà della propria causa, sino al punto di giustificare con le vittime e con se stessi le ragioni delle violenze che stanno infliggendo, il cinismo degli inganni, la spietata tecnica delle minacce e del terrore. Dall’esperienzaumanadi Mastrogiacomo emanano raggi di luce che aiutano a comprendere alcuni aspetti della rivolta degli integralisti afghani. Che due anni e mezzo dopo la conclusione, in parte felice in parte tragica, di quella vicenda, prosegue ed ha per protagonisti giovani e meno giovani combattenti assai simili a quelli descritti nei «Giorni della paura».