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Nel libro I giorni della paura il giornalista racconta la sua prigionia in Afghanistan

Autore: Alessandro Mezzena Lona
Testata: Il Piccolo
Data: 2 settembre 2009

Una storia così disarma anche un grande giornalista come Bernando Valli. Gli toglie le parole dalle mani. Lo costringe a rifugiarsi nella letteratura, tirando in ballo Joseph Conrad, lo scrutatore del ”cuore di tenebra” che pulsa dentro ogni uomo. Lo scrittore polacco di lingua inglese che confessava: «Come faccio a spiegare a mia moglie che quando guardo fuori dalla finestra sto lavorando?». Si aggrappa a Lord Jim, Valli, mentre scrive la sua presentazione al libro di Daniele Mastrogiacomo. Evoca la prosa conradiana nel commentare ”I giorni della paura” (edizioni e/o, pagg. 191, euro 16), il diario scritto dal giornalista della ”Repubblica” due anni dopo la sua durissima esperienza di prigioniero nelle mani dei talebani in Afghanistan. Ma, evocando la figura leggendaria di Lord Jim, riesce a far immaginare soltanto in mimima parte al lettore che cosa lo aspetta tra le pagine. Di solito, è bene non credere ai risvolti di copertina che annunciano: «Una volta iniziata la lettura di queste pagine non si riesce a smettere». Mai come in questo caso, però, il trito slogan pubblicitario si rivela terribilmente veritiero. Perché Mastrogiacomo non si limita a raccontare il suo calvario di inviato sequestrato dai guerrieri islamici fondamentalisti più feroci. No, da giornalista di razza non si sottrae per un istante solo al compito di far capire il microcosmo talebano con le proprie regole, inflessibili, con i momenti di smarrimento, con gli slogan indiscutibili e le curiosità verso quel mondo occidentale che demonizzano.

E guardando dentro questo pozzo oscuro, cercando di sintonizzarsi con i suoi carcerieri, che si sentono autorizzati a frustarlo, a umiliarlo, a raccontargli bugie soltanto perché lo considerano un ”infedele”, per poi magari chiedergli scusa, l’inviato di ”Repubblica” ci accompagna alla scoperta della solitudine di un uomo che, all’improvviso, si trova trattato alla stregua di uno schiavo. E che per non lasciarsi travolgere dalla paura della morte deve aggrapparsi al mondo che si porta dentro. Al ricordo delle persone amate, degli amici, dei colleghi. Ai frammenti di quella vita che gli ha regalato tanto, e che tra i tormentati paesaggi mozzafiato dell’Afghanistan riaffiorano come piccoli salvagenti a cui aggrapparsi nel furore della tempesta. Non pensava certo di essere ”venduto” ai talebani, Daniele Mastrogiacomo, inviato di guerra sui fronti caldi dello scenario internazionale, quando ha deciso di ritornare in Afghanistan nel febbraio del 2007. Ajmal Naqshbandi, suo amico e interprete, giornalista free-lance in un Paese che non riesce a ritrovare la pace, gli aveva proposto un servizio a cui non poteva rinunciare. Diceva di avere contatti sicuri con i guerriglieri talebani, Ajmal. Gli prometteva un’intervista con uno dei capi. Materiale buonissimo, preso dalla fonte di uno dei gruppi armati che, nel secolo scorso e in questo primo scorcio di terzo millennio, ha tenuto testa allo strapotere militare dell’Unione Sovietica e dell’America. Non aveva troppa voglia di partire, Mastrogiacomo, però si era messo in viaggio. Gli restava giusto il tempo di impigrirsi un po’ a Kabul, nella stanza d’albergo che lo ospitava, mentre fuori cadeva la neve. Poi la partenza verso Kandahar, verso Lashkargah. Una terra dove, un tempo, gli aranceti si perdevano a vista d’occhio lungo ettari e ettari di pianura arida e secca, tenuti in vita da un sistema di irrigazione di cui gli afghani andavano fieri. Poi, i talebani avevano distrutto quel miracolo creato dalla Natura con l’aiuto dell’uomo, per punire i contadini che non volevano piegarsi alle loro rigidissime regole coraniche.

Da allora, hanno iniziato a fiorire i campi di papavero. Distese infinite di piante e fiori da cui si ricava quella pasta d’oppio che frutta pacchi di soldi. Finanziamenti preziosissimi per la rivolta armata degli studenti delle scuole coraniche. Che qualcosa non funzionava, Mastrogiacomo l’aveva capito quasi subito. Scortato a Kandahar, e poi a Lashkargah, da Ajmal e dall’autista Sayed Agha, il giornalista e i suoi collaboratori erano stati ingannati da un ”contatto” che, in realtà, gli aveva ”venduti” agli uomini capeggiati da uno dei più feroci leader talebani: il mullah Dadullah, che sarebbe stato in seguito ammazzato nel corso di un’offensiva delle truppe Nato. Arrestati, malmenati, legati e bendati, il giornalista e i due sfortunati collaboratori avevano iniziato una discesa all’inferno della follia integralista. Picchiati e poi blanditi, minacciati ma anche esortati a convertirsi all’Islam, umiliati, sbeffeggiati, ma subito dopo ingannati tra mille false moine. Giochi crudeli inventati solo per farli soffrire di più. Quindici giorni è durato il calvario di Mastrogiacomo. Il suo volto provato, la sua voce stanca e impaurita, sono apparsi in drammatici messaggi spediti all’Occidente, all’Italia, per convincere il ”nemico” a una trattativa, a uno scambio di prigionieri. Quando, anche grazie all’intervento dei servizi segreti, di Gino Strada e dello staff di Emergency, dell’ambasciata e del governo italiano, è arrivato il momento della liberazione, sul giornalista di ”Repubblica” è crollata, come un macigno, la notizia che il suo amico Ajmal era stato tradito. Liberato e poi riacciuffato dai talebani, aveva perso la vita esattamente come l’autista Sayed. Sgozzato senza pietà. Non contiene solo la storia di un sequestro, il libro di Mastrogiacomo. Non racconta in primo piano il buio che invade la mente di un giornalista privato del suo mondo, accusato di colpe inesistenti, degradato nella sua umanità, punto e basta. No, ”I giorni della paura” è anche un faccia a faccia con un microcosmo, come quello dei talebani, dei fondamentalisti, che è pronto a tutto per imporre la propria legge. Che non conosce altra libertà se non quella di obbedire con cieco fanatismo a una lettura distorta del Corano. A una fede che ignora la pietà.