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La mia Africa dimenticata

Autore: Emanuele Rebuffini
Testata: Avvenire
Data: 21 giugno 2003

La democrazia può salvare il continente nero, ma occorre un nuovo Piano Marshall: parla lo scrittore Ahmadou Kourouma

«L'Africa è di gran lunga il continente più ricco di povertà e di dittatori»: Aspettando il voto delle bestie selvagge è uno dei romanzi più feroci e sarcastici che siano mai stati scritti sui mali dell'Africa. Il suo autore, Ahmadou Kourouma, è nato nel 1927 in un villaggio del nord-ovest della Costa d'Avorio. Dopo una laurea in matematica conseguita in Francia torna in patria come giornalista e qui viene incarcerato e perseguitato. Oggi è considerato uno dei più grandi scrittori africani. Negli ultimi anni ha vinto il Prix Tropiques, il Premio Renaudot, il Premio Livre Inter e il Goncourt des lycéens. Il suo ultimo romanzo si intitola Allah non è mica obbligato (Edizioni e/o), e quest'oggi verrà premiato nella suggestiva cornice del castello di Grinzane Cavour (Cuneo), insieme allo spagnolo Javier Cercas e al bosniaco Milijenko Jergovic, i tre vincitori della sezione narrativa straniera del Premio Grinzane Cavour (toccherà alle giurie scolastiche designare il "supervincitore"). L'abbiamo intervistato.

I suoi libri sono una crudele satira della ferocia dei dittatori. Se l'Africa sta male, non è tutta colpa dell'Occidente?

«L'Africa ha conosciuto molti mali. Ha conosciuto la schiavitù, la colonizzazione, la guerra fredda. Ma si tratta di problemi che sono stati causati all'Africa dall'Occidente. Sono queste le ragioni che hanno tuffato l'Africa nella miseria. Bisogna risolvere i problemi dell'Africa in maniera razionale, attraverso un aiuto. Un aiuto simile al Piano Marshall, in modo tale che i popoli africani si sentano sostenuti».

E' possibile portare la pace in Paesi come il Congo, devastati dalla guerra civile e dalle truppe paramilitari?

«La pace è sempre possibile. La guerra non è qualcosa di permanente. Però bisogna ricordarsi che la pace può nuocere agli interessi di molte persone, per cui la pace può trionfare solo quando gli interessi di queste persone vengono sconfitte. Pensiamo a Taylor in Sierra Leone, un vero bandito, un gangster, che ha costruito tutto il suo Paese sulle guerra e sulla paura creata dalla guerra. Nei suoi confronti Houphouët-Boigny e Gheddafi sono persone apparentemente per bene. Ma ad un certo momento anche lì la guerra è giunta alla fine».

Come giudica la scelta dell'invio di caschi blu francesi per riportare la sicurezza nella zona dell'Ituri, nel Congo?

«L'invio delle truppe francesi era obbligatorio, in quanto le forze delle Nazioni Unite sono insufficienti. Nella zona dell'Ituri abbiamo due tribù che si combattono per ragioni economiche e storiche, il governo centrale non è in grado di porre fine a questi scontri, e l'intervento francese è indispensabile per costringerle a smetterle di combattersi».

Circa dieci anni fa venne pubblicato un saggio di René Dumont intitolato "Democrazia per l'Africa". Oggi a che punto è il processo di democratizzazione?

«L'Africa vuole la democrazia. L'Africa ha bisogno della democrazia. Solo che le cose sono più complesse rispetto all'Occidente. Perché in Occidente la democrazia si rivolge agli individui, non ha importanza se questi siano di Napoli oppure di Torino. Invece in Africa la democrazia deve tenere conto sia degli individui sia delle tribù a cui appartengono. Credo che tutti i mali dell'Africa di cui abbiamo parlato prima possano trovare soluzione proprio nella democrazia».

Cosa è cambiato per l'Africa dopo l'11 settembre? L'Africa è sempre più dimenticata, sempre più alla periferia della storia?

«L'11 settembre non è una vicenda che ha toccato direttamente l'Africa, ma i rapporti tra il mondo arabo e quello occidentale. No, direi che non ci sono state conseguenze dirette sul continente africano e la situazione dell'Africa non è mutata rispetto a prima. Anzi, è forse peggiorata. L'Africa è ancora più dimenticata di prima».

Il suo ultimo romanzo ha per protagonista un bambino soldato. Un Protocollo dell'Onu di un anno fa vieta l'impiego dei bambini-soldato. E' un divieto che serve a qualcosa?

«L'Onu decide, ma l'Onu non ha i mezzi per impedire il reclutamento dei bambini. Per farlo bisogna inviare persone nella foresta per intervenire direttamente sui bambini. E' una buona cosa che l'Onu abbia affrontato il problema, perché consente a tutta la comunità internazionale di aprire gli occhi. Però, se non vogliamo più bambini-soldato allora non dobbiamo più volere i bambini di strada. E questo richiede un livello di vita diverso da quello attuale. Per scrivere Allah non è mica obbligatorio mi sono documentato attraverso l'Alto Commissariato dei rifugiati dove ho conosciuto un interprete che aveva vissuto direttamente questa tragedia in Liberia e in Sierra Leone. E ad Abidjan ho incontrato un bambino soldato che mi ha raccontato la sua vita. Voleva smetterla di combattere, voleva una vita normale, ma non ci riusciva e continuava a drogarsi».