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Quattro studenti odiano la mediocrità: da Déon, ideologo di avventure solitarie

Autore: Clotilde Bertoni
Testata: Il Manifesto - Alias
Data: 1 luglio 2018
URL: https://ilmanifesto.it/quattro-studenti-odiano-la-mediocrita-da-deon-ideologo-di-avventure-solitarie/

Giudicare le opere in base alle idee o alla condotta dei loro autori è, si sa, quanto di più arbitrario. Ma a furia di ribadirlo, si rischia spesso l’eccesso opposto: per schivare la temutissima accusa di moralismo, per ostentare un anticonformismo parecchio a buon mercato, si esalta senza discussione la produzione di artisti controversi, anche quando, a ben vedere, ce ne sarebbero di cose da discutere. Spinge a pensarci Pony selvaggi, romanzo di Michel Déon comparso nel 1970 (e in una nuova edizione nel 2010), pubblicato ora per la prima volta in italiano da e/o (traduzione di Alberto Bracci Testasecca, pp. 512, euro 19,00). L’autore è stato un acceso reazionario, sotto il regime di Vichy segretario del Maurras antisemita, poi membro del gruppo degli «Ussari» (in perenne polemica con Sartre) e strenuo sostenitore dell’Algeria francese: il suo profilo certo non offusca l’interesse del libro; ma non può neanche impedire di considerarne i limiti. L’intreccio segue un tracciato di fascino garantito (perno della Trilogia dei moschettieri di Dumas come dei Déracinés di Barrès, citati entrambi): le esperienze di amici di gioventù, che la vita via via allontana e ricongiunge. Quattro studenti, tre inglesi e uno francese, compagni di università a Cambridge nel 1938, giurano, su richiesta di un professore eccentrico e geniale, di «rifiutare destini mediocri e volare gli uni in soccorso degli altri quando servirà»; le loro successive peripezie incrociano tappe decisive della storia novecentesca, dal secondo conflitto mondiale alla guerra d’Algeria al crollo del protettorato britannico di Aden; la vicenda si sposta dall’Inghilterra alla Francia, dall’Italia allo Yemen, con ampie soste nella Grecia e nell’Irlanda patrie d’elezione dell’autore.

Il ritmo incalzante del racconto, trapuntato di anticipazioni e flashback, serra efficacemente il panorama affrontato; e la narrazione stessa diventa parte della trama, perché a condurla è un altro personaggio, uno scrittore evidente proiezione di Déon, il quale sta dedicando ai protagonisti un romanzo mise en abyme del testo. Ma al di là della congerie variopinta di episodi e dei loro numerosi agganci a fatti autentici, tutta l’opera risulta asservita all’espressione di un senso inflessibilmente monocorde.

La rievocazione storica non si limita a sottolineare i crimini sovietici (in particolare, il vero andamento del massacro di Katyn); ma presenta i collaborazionisti come patrioti intrepidi che al momento della liberazione gridano in faccia ai loro «carnefici» «Viva la Francia!»; contrappone al ricordo di una vittima dei fascisti quello di un altro uomo, «buono e giusto», che sono stati gli antifascisti a uccidere; parla delle «miserie atroci» del popolo ebraico ma pure dei suoi «patrimoni insolenti»; dichiara il dominio coloniale votato al bene dell’Algeria, e descrive l’intervento dell’esercito francese – notoriamente di violenza efferata – come una missione condotta «con passi falsi ed errori assurdi, ma anche con una generosità senza paragone».

La debolezza del romanzo, però, non sta tanto in questa spinta tendenziosità, quanto nella sua convergenza intorno a un messaggio stantio quanto imperioso: consistente, da un lato, nella sprezzante liquidazione dell’impegno riformista, delle lotte pacifiche e delle «idee generali che non valgono un fico»; dall’altro, nel culto «dell’azione per l’azione» e nell’idolatria delle avventure solitarie, unica salvezza di un mondo che «altrimenti poltrirebbe nella sporcizia e nella nefandezza».

Un messaggio incarnato innanzitutto dai protagonisti, difformi ma comunque monolitici: Cyril, «moderno Ariel», poeta bellissimo e talentuoso, ucciso nella ritirata di Dunkerque; Horace, agente dei servizi segreti britannici dalla misteriosa doppia vita, cinico manipolatore riscattato infine da un gesto sommamente generoso; Barry, che attraverso cambiamenti di identità all’altezza del conte di Montecristo, conserva il suo «carattere d’acciaio»; e Georges, giornalista integro e perdente, che, vedendo il suo desiderio di verità frustrato, volta le spalle ai compromessi della stampa.

Sono circonfusi da un’analoga luce positiva anche molti comprimari: il figlio di Georges, Daniel, che dopo la guerra d’Algeria si aggrega agli estremisti dell’Oas, battendosi con fervore «nobile e selvaggio», «per il sacrosanto rispetto della parola data»; un principe italiano fascista che rimanda chiaramente al famigerato Valerio Borghese; e vari militanti delle cause perse di ogni colore. Mentre una categorica condanna colpisce, oltre ai «grandi padroni» e ai dirigenti politici, gli intellettuali di sinistra, «prodighi del sangue degli altri».

La scrittura registra poi i peggiori tonfi nella caratterizzazione delle donne, prive di vocazioni autonome e relegate nella sfera erotica: come Chrysoula, volgarissima prostituta greca «dai seni prodigiosi»; Anna, vedova russa apparentemente «bella e tragica, fiera e ferita», che, una volta arrivata in Occidente, si rivela «donnetta assetata» di «prodotti di bellezza»; o Sarah, ebrea che finisce per aderire alla causa d’Israele, ma nel corso della trama non fa che passare da un amante all’altro, con il «corpo ardente» e le «labbra orlate di piacere».

La linea seguita da Pony selvaggi ha avuto ampio successo: oggi innumerevoli autori riservano alla politica e alle ideologie una sfiducia perentoria, controbilanciandola con il recupero di sfiorite mitologie di onore e audacia, con la celebrazione di beaux gestes fini a se stessi; e se alcuni (ad esempio Carrère, non a caso di Déon ammiratore) sanno farlo in modo più sofisticato, i libri di molti altri si risolvono, proprio come questo, in combinazioni frettolose tra gli echi dell’epos classico e le suggestioni dei romanzi d’avventura. Ma l’epos classico non può risuscitare, certi valori hanno cambiato troppo il loro senso; e gli autori dei grandi feuilleton avevano una fantasia e pure uno stile che non si imitano alla svelta: imprese del genere non sono di facile riuscita.