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«Il superstite» è davvero «A sangue freddo» italiano?

Autore: Costanza Rollandi
Testata: Esquire
Data: 5 luglio 2018
URL: https://www.esquire.com/it/cultura/libri/a22044989/il-superstite-di-massimiliano-governi/

Ho letto A sangue freddo per la prima volta da adolescente, e l’ho amato senza capirlo. L’ho compreso, e quindi amato meglio (pure l’amore è un fatto di qualità), quando anni più tardi una persona carissima mi consigliò di rileggerlo, convinta anche lei che Truman Capote avesse creato uno di quei tasselli che col tempo si scoprono centrali, “rivelatori” nella formazione, letteraria e non, di ciascuno.

È stato quindi inevitabile sentirmi attratta e allo stesso tempo in qualche modo insospettita dalla promozione ufficiale de Il superstite di Massimiliano Governi (Edizioni e/o) che lo descrive proprio come un A sangue freddo italiano.

Ma è un paragone che in realtà calza poco, se non nell’ispirazione alla cronaca nera, e lo stesso Governi butta nel fuoco (letteralmente) l’esperienza narrativa capotiana – con la quale è ovviamente costretto a confrontarsi – perché allo sfortunato protagonista del romanzo, un allevatore di polli della provincia italiana che solo sopravvive al massacro della sua famiglia d’origine, in realtà non interessa poi tanto capire: vorrebbe solo “ritornare”.

LA STUPIDITÀ DEL MALE

Il punto di partenza è lo stesso: un atroce sterminio di massa nel rumoroso silenzio della notte in campagna. Una casa, una famiglia, e tanto sangue incomprensibilmente versato. Ma mentre il cuore del romanzo-non fiction di Capote era la meticolosa, quasi scientifica ricerca di un approdo comunicativo condiviso con gli assassini, il tentativo di capire – in maniera definitiva – quanto di umano esista e resista nell’abisso, qui il male è semplicemente e irrimediabilmente stupido.

Si sarebbe tentati di dire che Il superstite sia un noir sull’elaborazione del lutto, ma non è neppure solo questo. È, forse, un romanzo sulla resa all’impossibilità di controllare la vita, su come la sensazione di perdita possa essere così totalizzante da compromettere anche la riconoscibilità del sé.

Il libro procede per squarci. L’individuazione del colpevole – uno sbandato slavo – la sua cattura, il suo processo, la sua condanna in Serbia e poi la sua morte. Il superstite ci racconta in prima persona gli episodi clou della sua storia, o, almeno, di quello che gli accade intorno negli anni successivi al delitto che lo lascia senza famiglia (quella d’origine, sterminata, e quella formata dalla moglie e dalla figlia, che il dolore gli fa perdere).

Ma la bravura di Governi sta nel restituirci con pienezza tutto quello che nel romanzo non c’è: contano gli intervalli di tempo fra uno squarcio e l’altro, la routine solitaria del protagonista, che irrimediabilmente fallisce nei suoi tentativi di recuperare una forma di vitalità sana. Ci sono (perché non ci sono) le padelle sporche lasciate nell’acquaio, le camicie non più stirate, gli stivali sporchi di fango al rientro dal capannone dove stanno i sui polli. C’è l’indifferenza verso sé stesso, la ritrosia ad ogni contatto con l’esterno, c’è il non sentire più niente, c’è tanto, tantissimo silenzio.

La prosa di Governi è magistrale nell’aderire all’essenzialità della voce narrante. È un’operazione a togliere, via tutto quello che è superfluo, via anche l’articolazione del pensiero. Rimane la precisione quasi chirurgica nel fissare plasticamente alcuni particolari fisici che diventano ossessionanti: dei sassolini bianchi, un maglione rosso, un fiore giallo, una croce di legno e cartapesta.

Fosse un film, questo romanzo sarebbe la scena in cui il protagonista perde contatto con la realtà: rimangono solo il suono del proprio respiro e il fischio acuto del mondo esteriore, che si continua a percepire ma non si può più interpretare per darvi senso. Solo che qui la scena dura quasi una vita intera. Nel romanzo, il sopravvissuto contemporaneamente esce da sé e si abbozzola dentro alla propria intimità. Un lungo stato di trance, in cui la realtà esteriore può esclusivamente essere subita e del proprio io sconquassato rimangono frammenti disconnessi. Forse anche per questo tante pagine sono dedicate ai sogni: la dimensione onirica si confonde con quella del reale, senza che il sopravvissuto sia in grado di attribuire un grado differente di assurdità all’una più che all’altra. La scena del ritrovamento dei corpi dei familiari rimane, anche in questo senso, una pagina di scrittura molto potente.

Ma ne Il superstite, pur così concentrato sull’esperienza di raccoglimento dell’individuo, Governi lascia spazio a una ricchezza di sotto-temi significativa, e in parte inaspettata. C’è una amicizia virile à la Hemingway, fatta di una vicinanza emotiva che non conta o quasi sulla comunicazione verbale - un paradosso, perché l’amico è un giornalista, che di parole ci campa. C’è il radicamento alla terra di un naufrago dei sentimenti. C’è la sessualità, ci sono la malattia e la caducità del corpo (una violenza diversa), e c’è perfino qualche riuscito lampo di riflessione sull’economia globale del XXI secolo. Ci sono l’amore per i figli quando non si può più essere padri e l’amore per i padri quando non si può più essere figli. C’è una possibilità (forse) di rinascita, tutta femminile, che a me ha ricordato tanto l’ultima pagina del Furore steinbeckiano: un altro romanzo sull’attaccamento alla vita.