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La grande testimonianza di Daniela Dawan

Testata: Il Telegrafo Livorno
Data: 24 febbraio 2019

Daniela Dawan ha un sorriso aperto e gentile che subito raggiunge chi le sta di fronte. Ed è la scrittrice che, così volentieri, ha aderito all'invito per una delle tappe della manifestazione letteraria "Migramente", organizzata venerdì 22 dal Centro Servizi per le donne immigrate (Cesdi), presieduto da Sherazade Al Bsha, in collaborazione con il Comune, rappresentato dall'Assessore Francesco Belais. Viaggia, è lei stessa a dircelo, con un trolley davvero pesante di carte, documenti e memoria. Perché Daniela Dawan non è solo la bambina nata a Tripoli e costretta alla fuga dalla Libia a causa delle violenze panarabe scatenatesi durante la Guerra dei Sei giorni; ma è anche una professionista che oggi pendola per il suo lavoro di penalista e Consigliere di Cassazione, e per quello di scrittrice, tra Milano e Roma, Bruxelles e New York. È durante la presentazione alla Ubik, incalzata da Michela Berti, che Daniela ci rivela l'ispirazione che l'ha portata a scrivere "Qual è la via del vento" (Edizioni E/O): «Ho avuto l'idea di scrivere il libro a seguito dei massacri del 2011, prima della caduta di Gheddafi. Anche io avevo lasciato lì una parte della mia vita, come la piccola Micol, la protagonista del libro, a seguito di analoghi fatti che cancellarono la comunità ebraica di quei luoghi negli anni Sessanta. Tutto questo e il ricordo di una sorella morta appena dopo il parto (che ha ispirato la figura di Leah) ha così generato il sogno di un giardino, certo lasciato all'incuria, ma in cui sarei potuta tornare a riprendere il senso della mia memoria, il filo conduttore di un romanzo sia autobiografico che collettivo, famigliare». «Io mi sento vicina al mondo arabo, perché ci sono nata - risponde riguardo alla "negazione dell'altro" - ma in quegli anni, molto più forte di oggi, questo atteggiamento era pressante. Io stessa, come poi la protagonista Micol, frequentavo una scuola elementare diretta da suore dove continuamente ero sollecitata alla conversione. Ma, pur senza entrare in questioni politiche, se la storia che narro è quella della distruzione di una famiglia ebrea, racconto anche storie d'amicizia e d'amore capaci di superare ogni steccato religioso e ideologico. Perché ho sperimentato che il rapporto personale può essere una via d'uscita, nonostante sia normale una dialettica differenza tra popoli».