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Nato, il bambino che sognava di essere una Spice Girl

Autore: Daniele Pratolini
Testata: Style Magazine - Corriere
Data: 9 aprile 2019
URL: https://style.corriere.it/top-class/nato-il-bambino-che-sognava-di-diventare-una-spice-girl/

A distanza di tre anni, Maurizio Fiorino torna con un nuovo romanzo: Ora che sono Nato per edizioni e/o. È il diario di una diseducazione sentimentale che racconta le vicende di una famiglia del sud, un sud che è il mondo. La voce narrante è quella di Nato, ultimo di tre figli che sogna di diventare una Spice Girl. Un libro che ci porta per mano fino alla più sorprendente e scontata dichiarazione d’amore, quella per sé stessi e la propria libertà.

Iniziamo dal titolo. C’è per caso un rimando a un brano di Gianna Nannini che si chiama Contaminata?

Nelle capriole della scelta dei titoli questo romanzo è stato prima Storia di un bambino riparatore, poi Sono Nato e basta, frase che a un certo punto il protagonista urla alla sua famiglia in una sgangherata dichiarazione d’esistenza; seguito da Nato e basta e infine da Nato. Andando avanti così lo avrei intitolato N. Alla fine, il titolo mi è arrivato addosso come un fulmine. Ora che sono Nato racchiude tutto il senso del libro.

È un romanzo ambientato nel sud, nel sud che però è il mondo.

Questo libro è ambientato in un sud imprecisato proprio per soddisfare il mio desiderio di essere più universale possibile. Al mondo ci sono tante famiglie Goldino. Pensa che a un certo punto del Lamento di Portnoy, Roth paragona alcune donne ebree del New Jersey a quelle calabresi. Nato può tranquillamente considerarsi un fratello minore, ma non meno audace, di Alex Portnoy.

Tina Griace e Peppe Goldino sono il padre e la madre di Betta, Tonio e Nato. Cinque personaggi tutt’altro che in cerca d’autore.

Quando ho iniziato a scrivere della famiglia Goldino, mi sono trovato davanti a un bivio: scelgo la commedia o la tragedia? Un po’ come quel film di Woody Allen, Melinda e Melinda. Degli amici si ritrovano da Pastis, nel cuore del Meatpacking District, e tra una chiacchierata e un’altra iniziano a raccontare della stessa persona ma sotto due punti di vista diversi, quello comico e quello drammatico. Visto la mia indole calabrese avevo scelto la seconda strada, la tragedia. Pensavo di aver davanti I dolori del giovane Nato, poi dopo qualche mese di scrittura ho iniziato a rileggere e sai, rileggendolo, ridevo, piangevo e ancora ridevo. Poi piangevo, ridevo e piangevo. Ridevo di questi personaggi così folli e disumani. Piangevo perché tutte le loro pazzie venivano riversate sull’ultimo figlio, Nato, che nel romanzo ha il ruolo di spia. Osserva la sua famiglia senza mai giudicarla e racconta in prima persona ciò che vede: teatro.

Il protagonista si rende conto da subito di essere venuto al mondo per sanare l’insanabile.

Nato ha l’ingrato compito di riattaccare i cocci di un vaso rotto, la sua famiglia. All’interno di essa si sente però uno straniero e a un certo punto della sua adolescenza si domanda: ma io, in questa guerra, cosa c’entro?

Il tema centrale è per l’appunto la famiglia, ma anche l’amore. A un certo punto il protagonista si chiede se la storia dell’umanità sarebbe andata in maniera diversa se, al posto della parola fedeltà, la formula del giuramento avesse contemplato la parola amore. “Prometto di amarti sempre, comunque vada, nella gioia e nel dolore…”.

Per molti il matrimonio è un punto di arrivo, come se da quel giuramento in poi tutto diventasse perfetto. Dall’illusione spesso nasce la violenza. Credo poco nella fedeltà, per niente in quella sessuale, eppure mi considero una persona fedele. L’altro giorno ho fatto un incontro in una scuola di Torino e ho chiesto a un alunno quali metodi usasse per conquistare una ragazza. Lui mi ha riposto candidamente: “Gli dedico il mio tempo”. Per me l’amore è quello.

Come vedi le famiglie di oggi?

Anni fa su un volo mi è capitato come compagno di posto un giovane psichiatra. Gli dissi che scrivevo romanzi e lui sorridendo mi lanciò una sfida. “Allora devi scrivere un romanzo su una questione che quasi nessuno ha il coraggio di affrontare: le famiglie, che sono l’origine di tutti i mali”. Il giorno dopo ho scritto le prime righe del libro.

Sfogliandolo è impossibile non immergersi in dei grandi cult degli anni ’90. Partiamo da Non è la Rai?

La guardavo tutti i pomeriggi. Nel dubbio di perdermi qualche frase o qualche passo di danza lo registravo, così potevo riguardarlo almeno altre due o tre volte fino a sera. Da bambino ho obbligato la mia famiglia a portarmi fuori gli studi televisivi del Centro Palatino di Roma. Avevo otto anni e incontrai quasi tutte le ragazze di Non è la Rai, tranne Ambra.

Oltre a scrivere sei anche un fotografo e la foto di copertina è tua. Dove l’hai scattata?

A Scilla, un luogo magico. Ho trascorso l’estate scorsa in Calabria rinchiuso in casa a scrivere e vivendo la mia solita routine creativa. Mi alzo, bevo un caffè, mi siedo e scrivo. Poi mangio qualcosa, faccio un altro caffè, mi siedo e scrivo ancora. Un giorno ho preso un treno e sono andato a Reggio Calabria, e poi a Scilla. Non sapevo cosa aspettarmi ma dopo un po’ ho trovato un gruppo di ragazzi che si tuffavano da una scogliera alta almeno una trentina di metri e li ho iniziato a fotografare.

È vero che quando eri al Dams sei stato bocciato all’esame di fotografia?

All’università ho fatto solo disastri. Ho cambiato tre facoltà in tre anni e alla fine mi sono iscritto al Dams, perché volevo studiare arte. Però è inesatto dire che sono stato bocciato perché il professor Marra l’esame non me lo ha neanche fatto fare. Avrei dovuto prima superare un test al quale, lì sì, sono stato ripetutamente bocciato. Tre o quattro volte, neanche lo ricordo più. E poi non mi importa. All’ennesima bocciatura mi sono ritirato dall’università e sono andato a studiare fotografia a New York.

Tra qualche giorno esce questo tuo terzo libro, come ti senti?

Come ogni giorno della mia vita. In do maggiore, come il Boléro di Ravel.