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«La gente non si fida più di élite e intellettuali»

Autore: Eleonora Barbieri
Testata: Il Giornale
Data: 18 settembre 2019

Di Éric Vuillard, le edizioni e/o hanno pubblicato in italiano due gioiellini, L’ordine del giorno, storia «alternativa» dell’Anschluss, con cui lo scrittore francese ha vinto il premio Goncourt nel 2017 e, ora, La guerra dei poveri, sul predicatore riformato Thomas Müntzer e la rivolta di contadini da lui guidata nella Germania del 1525 (di cui avete già letto sul nostro Giornale, il 25 agosto scorso).

Éric Vuillard, perché proprio Müntzer?

«Innanzitutto perché è raro che un intellettuale si metta dalla parte del popolo, e che lo faccia mettendo a repentaglio la propria vita. Poi, di solito, gli intellettuali sanno o hanno di più delle persone comuni, e questo di più lo hanno appreso dai libri. Ci sono pochi esempi del contrario, di persone colte che abbiano appreso dai grandi numeri, dal popolo. Un’eccezione è Jean Jaures».

E Müntzer?

«Müntzer è stato riformato due volte: prima da Lutero e, poi, quando si è distaccato dalla dottrina per mescolarsi con il popolo, vivendo la vita del predicatore errante, vicino agli strati minori della popolazione, i grandi numeri. Artigiani, commercianti, contadini: sono loro che l’hanno cambiato e riformato, facendogli capire che la riforma non era sufficiente per affermare l’uguaglianza dell’uomo davanti a Dio».

Si oppone ai poteri forti dell’epoca.

«Ero affascinato dal fatto che un uomo così giovane abbracciasse la causa del popolo così appassionatamente da opporsi al potere più forte della sua epoca, quello della Chiesa, tanto da essere decapitato sulla pubblica piazza. Mi sembrava una vita romanzata che valesse la pena raccontare».

Perché scrive romanzi storici?

«La storia della letteratura è la storia del suo rapporto con la realtà sociale. Nel caso di Müntzer, la sua storia è legata alla prima apparizione della stampa, la quale porta a una maggiore diffusione della letteratura ma, dall’altra parte, al controllo, da parte dei poteri forti, di ciò che viene pubblicato. La letteratura, quindi, racconta il rapporto con la realtà, ma viene controllata dal potere forte, la Chiesa, o il re».

Quando cambia la situazione?

«Dopo la Rivoluzione francese. Con Balzac, Stendhal, Hugo, Dickens, Manzoni, la letteratura si inclina verso la realtà: è libera dalla censura della chiesa e il romanziere non è più al servizio dei potenti, per divertirli o raccontarne le gesta, bensì scrive per il popolo, finalmente».

E che cosa scrive?

«Come i potenti, anche il popolo vuole che si parli di lui: quindi racconta la vita di un profumiere, di un operaio... E così la letteratura comincia a scrivere che cosa è la società, com’è: traccia un rapporto stretto con la realtà e ne permette una comprensione migliore. Ma, a volte, per capire la realtà di oggi, bisogna andare indietro, nel passato: bisogna andare negli archivi per ricostruire il rapporto con la realtà».

Come nell’Ordine del giorno?

«Non avrei potuto scrivere di un incontro fra uomini dell’alta finanza e della politica di oggi, perché non ho accesso a quel genere di documenti come, per esempio, l’aveva Tolstoj, che era un aristocratico. Allora ho descritto la riunione del 20 febbraio del ’33, in quel che, per me, è un continuo rimando fra letteratura e società reale, del nostro mondo».

Come scrive in quel romanzo, la letteratura «consente tutto»?

«La frase contiene un “si dice...”. Secondo Hugo, “la storia dovrà passare alle confessioni”. Ecco, il fatto di scrivere consente di raccontare tutto, di passare la storia o la società alle confessioni; è fare quello che fanno i bambini quando li sgridiamo: “Non si dice in pubblico, taci”».

C’è un limite?

«Tutto è permesso, ma c’è sempre una distanza, seppur piccola: Hugo, quando scriveva I miserabili, viveva in un appartamento di 750 metri quadri... La letteratura è un modo di consegnare la realtà per delega: permette tutto, ma in modo un po’ ammortizzato, attutito, anche nel migliore dei casi. Zola, che scrive del mondo operaio e viene lui stesso da quel mondo, è una rarità».

In La guerra dei poveri scrive che «le fantasie sono una delle vie della verità»: è così?

«Si possono intendere fantasia e immaginazione in modo diverso, separato da quello di finzione, su due registri che interessano la letteratura. Da un lato fantasia e immaginazione si possono definire come la traccia che il sapere lascia nella scrittura e nella composizione del libro, che è poi una componente essenziale del sapere stesso, perché un sapere impersonale è un sapere schierato dalla parte del potere».

E l’altro modo?

«Ci sono passi interi della vita sociale che ci sfuggono, e sono quelli che riguardano i poveri, gli ultimi, a proposito dei quali il romanziere si trova privo di documenti. Ciò che si può intendere con immaginazione può sopperire a questo: si può, concentrandosi sulle tracce disponibili, incarnarle, e dare loro un peso intellettuale e tangibile che, altrimenti, non avrebbero».

Qual è il rapporto fra letteratura e potere oggi?

«Credo che si tocchi con mano una certa sfiducia, e distanza, dei grandi numeri nei confronti della politica. Le persone non vogliono più delegare il potere e non si fidano degli intellettuali, che parlano a nome loro nei confronti dei poteri forti. La gente non è più disposta a delegare agli intellettuali e così sembra quasi, oggi, che lo scrittore debba confondersi nella massa».