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Contro i pifferai della rivoluzione

Autore: Serena Vitale
Testata: La Domenica del Sole 24 Ore
Data: 1 luglio 2017

Vedono la luce in Italia quasi contemporaneamente, a cura della slavista Caterina Graziadei, due opere di Marina Cvetaeva, definita da Iosif Brodskij «il più grande poeta del XX secolo»: Il campo dei cigni, un ciclo di poesie (gennaio 1918 dicembre 1920; apparse su pubblicazioni periodiche, furono raccolte per la prima volta in volume nel ’57, a Monaco) e L’accalappiatopi, 1925 (rispetto alla prima edizione italiana del 1983, sempre curata con amorevoli premure da Graziadei, quest’ultima appare notevolmente perfezionata, arricchita anche del testo russo a fronte).

Le poesie del Campo dei cigni nacquero in anni oscuri, luttuosi: il caos postrivoluzionario, la guerra civile, la personale tragedia dell’autrice, che nel febbraio 1920 perse la seconda figlia, Irina, morta di denutrizione a neanche tre anni. Era rimasta sola, Marina, priva di tutto, con due bambine da sfamare, incapace di organizzarsi nella vita quotidiana di un Paese sconvolto, nella casa ormai un “tugurio”dove era vissuta con il giovane marito. Agli inizi del ’18 l’ufficiale Sergej Efron aveva raggiunto l’armata dei Volontari che si andava formando nei territori meridionali della Russia e da allora Marina non aveva più notizie di lui (soltanto nel ’21 avrebbe saputo che era vivo e lo avrebbe raggiunto nell’emigrazione).

Cieca alla “politica”, nemica di ideologie, partiti, consorterie di ogni genere, Marina vide la sua Mosca attraversata dalle «grigie truppe della rivoluzione», una marmaglia di aggressivi «partigiani del dio Marte» che la piccola Alja, la figlia maggiore, guardava con una leggera smorfia. Maledisse Pietro il Grande, «progenitore dei Soviet... di ogni rovina», carnefice della santa Rus’ (a conferma della sua natura di diario lirico ogni poesia del Campo dei cigni è datata e, sfida all’ateismo di Stato, alla data spesso si accompagna l’indicazione della festa liturgica). Cantò una volta lo fece anche di fronte a un uditorio moscovita politicamente ipercorretto gli ideali cavallereschi di onore, giustizia e fedeltà, incarnati nei “controrivoluzionari” di cui presagiva la disfatta. Don (nelle terre bagnate dal fiume al Sud si svolgeva la mattanza fratricida che sarebbe terminata con la presa della Crimea da parte dell’Armata Rossa, l’evacuazione forzata dei vinti) coincideva per lei con Dolg, con il «dovere, lusso regale nei tempi delle piazze». Ma trovava parole di pietà per tutte le vittime per i Bianchi «arrossati dal sangue» come per i Rossi «sbiancati dalla morte»...

In una lirica del ’18 aveva dichiarato di avere due soli nemici sulla terra: «la fame degli affamati e la sazietà dei sazi», anticipando quello che diventerà il leitmotiv dell’Accalappiatopi, il poema una delle più alte creazioni cvetaeviane iniziato in Cecoslovacchia; lì, nel ’22, la famiglia Efron si era finalmente riunita. A Moravská Tebová, dove Alja studiò per qualche tempo nel ginnasio-pensionato russo, Marina fu colpita dalla somiglianza della cittadina morava con certi borghi medievali tedeschi. Mente e cuore riandarono alla Germania, seconda patria del sogno: «Da mia madre ho ereditato la Musica, il Romanticismo. Cioè la musica. Tutta me stessa». Ma è una Germania quasi ripugnante quella che fa da sfondo alla rielaborazione del Pifferaio di Hamelin, l’antica leggenda che ispirò molti scrittori e poeti da Goethe a Robert Browning. Nel lindo, pacifico, ricco paese dove gli abiti hanno tutti la stessa foggia e i sogni sono opachi doppioni della noiosa vita diurna, l’Anima latita; resta solo la fame di denaro, di cibo. Soprattutto di cibo: straripano di viveri magazzini e depositi, e tutto quel ben di Dio riso, lardo, farina, granaglie attira inevitabilmente torme di topi. A Hammeln (persino il vero nome della città, Hamelin, è ingrassato di una seconda “m”) arriva un musicista che attira i topi nel lago dove annegano lo stesso, dove, ingannato dai notabili che gli rifiutano la ricompensa promessa, farà affogare tutti i bambini del borgo, da lui persuasi a seguirlo nel luogo paradisiaco «dove le perle sono grandi come noci»... Con i topi il Musico aveva usato argomenti diversi: seguendolo, diceva, sarebbero arrivati nell’Indostan: il lontano, azzurrissimo paese dove avrebbero potuto liberare tre miliardi di confratelli roditori ridotti in schiavitù dall’uomo dando inizio alla rivoluzione mondiale.

I satolli topi «arrivati da certi paesi russi» si annoiano a Hammeln, soffrono di ulcera, gastrite, gotta: gli abitanti li hanno contagiati con la loro opulenta routine filistea. Pigri, flosci, appesantiti dal grasso, hanno dimenticato come si ruba e si rosicchia, si sono messi a giocare a vint come certi impiegatucci dei racconti di Cechov, e c’è addirittura chi ha cominciato ad amare i gatti. È evidente e non sfuggì ai russi della diaspora l’ironica rappresentazione della Russia postrivoluzionaria: terminato il periodo “romantico” ( «per cosa abbiamo combattuto?», «senza lotta non c’è vita», si lamentano i topi ora bramosi di Sturm und Drang), ha avuto inizio la dittatura burocratica; con la Nep, la Nuova Politica Economica, sono spuntati fuori gli avidi ceffi di nuove Anime Morte.

Nell’Accalappiatopi suona alta la condanna di qualsiasi utopia rivoluzionaria: Marina Cvetaeva non crede alla possibilità di un vero trionfo del potere popolare, nei fatti che hanno drasticamente cambiato la storia del suo Paese scorge anche la segreta spinta della sete di potere, dell’invidia di classe. La Rivoluzione bolscevica, è convinta, nulla ha a che fare con l’eterna rivolta (slancio sovversivo contro la vita quotidiana, le sue minuzie e miserie) del poeta. «Cos’è la musica?», ragionano i consiglieri di Hammeln, «affronto al buon senso... demonio». E c’è davvero qualcosa di demoniaco nella doppia natura dell’arte, qui incarnata dalla voce del Flauto. Può salvare ma anche, come la stichija l’ “elemento naturale” con cui per Marina Cvetaeva si identifica la poesia stessa -, portare alla rovina, alla morte.