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I versi ribelli di Marina

Autore: Cristina De Stefano
Testata: La Repubblica - Robinson
Data: 16 luglio 2017

Comari-raganelle, /cuoche-cicalone,/borse, cuffiette/donnette-ciarlone". Apri il suo poema-fiaba L'Accalappiatopi — ora riproposto da e/o — e sei già in sua balia, sulle montagne russe. Marina Cveteva è pestifera come un monello, travolgente come una folata di vento. "Che devo farci della mia dismisura/in un mondo dove tutto è misura?", si lamenta in una poesia. E la figlia conferma nelle sue memorie: "Mia madre è una modo di cullarvi che rovescerebbe un bambino fuori dalla culla".

Fa così fin da piccola, irrefrenabile. Scrive e scrive. Pubblica la prima raccolta quando è ancora al liceo. "Versi meravigliosi", decreta il poeta Gumilev, marito di Anna Achmatova. I critici si mettono il cappello a tuba e vanno a bussare alla sua porta e si trovano davanti una ragazzetta che porta i capelli tagliati corti, vive nel culto di Napoleone e crede nei segni. Nell'estate dei suoi 18 anni, in vacanza in Crimea, vede un ragazzo pallido seduto in disparte — Sergej Efron, 17 anni, una tubercolosi che spera di curare sul Mar Nero — e gli chiede di aiutarla a cercare ciottoli. Se mi porta la pietra che sogno, pensa, lo sposo. E fa così, due anni dopo, nel 1912, moglie in fretta ma per sempre: "Porto il suo anello con gesto di sfida/in eterno moglie, sì — non sulla carta".

Innamorata del marito, incantata dalla figlia Ariadna, detta Alja, nata poco dopo, con cui parla senza sosta nelle pagine del suo diario chiacchierino — "Tu hai un anno e io ne ho ventuno" — vive dei risparmi che le hanno lasciato i genitori morti prematuramente e scrive di continuo, accumulando le raccolte di poesie "Tra cinquant'anni saremo tutti sotto terra. Ci saranno nuovi volti sotto un cielo eterno. E ho voglia di dire a tutti quelli che sono ancora vivi: Scrivete, scrivete di più! Fermate ogni istante, ogni gesto, ogni sospiro".

Quando i bolscevichi prendono il potere Sergej decide di arruolarsi nell'Armata Bianca dei controrivoluzionari e Marina lo appoggia, sempre intenerita dagli eroi perdenti: "Nuove folle, nuovi drappi/ma noi rimarremo fedeli al giuramento,/perché il vento è un cattivo giudice". Ha appena messo al mondo una seconda bambina, Irina, e si ritrova bloccata nella capitale, in mano ai bolscevichi, senza notizie di Sergej, a cui scrive lettere nel vuoto: "Se Dio farà questo miracolo — vi lascerà in vita, io vi seguirò come un cagnolino". Divide il suo appartamento con degli sconosciuti, facendo la fame. Affida brevemente le figlie a un orfanotrofio in campagna, sperando abbiano da mangiare ma non è così. Irina, più piccola e debole, muore di stenti, mentre sei sta curando Alja malata, che lei ha riportato a casa.

Nel novembre del 1920 l'Armata Bianca è in rotta. Marina non sa se Sergej è vivo o morte. Scrive poesie in onore degli sconfitti — "Petto stanco per aver tanto pianto/mio fratello, mio principe, mio figlio/buon anno, giovane Russia/al di là il blu del mare" — e non si muove dal suo appartamento, perché sa che è lì che Sergej verrà a cercarla, se è sopravvissuto. Quando le dicono che è riuscito a scappare a Praga, mette tutti i suoi manoscritti in una valigia e parte con la figlia per raggiungerlo. È sempre Alja che descrive l'incontro di Marina e Sergej, dopo cinque anni di separazione: "Dall'altra parte della piazza, agitando le braccia, un uomo grande, magro, correva verso di noi. Marina! Marinocka! Sapevo che era papà, ma non lo riconoscevo, perché ero troppo piccola quando ci eravamo lasciati. Corse verso di noi, il viso stravolto dalla felicità e abbracciò Marina. Stettero a lungo abbracciati, in una stretta forte come la morte, poi con il palmo delle mani cominciarono ad asciugarsi l'un l'altra le guance bagnate di lacrime".

Vivono a Praga e poi a Parigi, mantenendosi grazie ai lavoretti di Sergej e alla carità di esiliati russi più fortunati che ammirano la poesia di Marina. Lei mette al mondo un altro figlio, Georgij, detto Mur, e si dispera perché — oltre che povera — è incapace di tenere la casa, che la guarda minacciosa: "I rubinetti fuggono/le sedie raspano/le bocche parlano/piene di pappa". A salvarla ci sono la poesia — ogni mattina all'alba si versa una tazza di caffè nero e si mette alla scrivania, "come un operaio alla sua macchina", ricorda Alja — e l'amore. Si innamora di continuo, di tutti, di uomini e donne, giovani e vecchi, inondando ogni volta l'amato di poesie e lettere, e poi, dopo la rottura, di ironia: "Ditemi: come va con l'altra? / Meglio? Meno grane?". Nell'empireo dei più amati ci sono un poeta che ha visto una volta sola, Pasternak, e uno che non ha mai incontrato, Rilke. Quando quest'ultimo muore, rifiuta di accettare la notizia e continua a scrivergli: "Non sarai mai lontano/L'irragiungibile non è mai alto".

Nel 1939 accetta di seguire marito e figlia, che vogliono tornare in patria, pur essendo contraria: "La Russia, come vocabolo sonoro, non esiste più, ci sono delle lettere, URSS". Purtroppo le sue previsioni più pessimistiche si avverano. Il regime arresta Alja, che abortisce in carcere per le percosse subite, e poi Sergej, che resiste alla tortura e si rifiuta di coinvolgere Marina. Lei — senza notizie di nessuno dei due — si umilia scrivendo suppliche a Stalin, a Berija, ai poeti di regime che non le arrivano alle caviglie.

Durante la guerra viene assegnata a residenza con il figlio adolescente a Elabuga, nella repubblica Tatara. Il suo animo vacilla. "Nessuno vede - nessuno sa - che già da un anno cerco con gli occhi un gancio. Da un anno misuro - come un abito - la morte". Il 31 agosto del 1941, mentre è sola in casa, copre le finestre con un panno e si impicca a un chiodo nel muro.