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I sogni della gioventù tunisina: intervista a Shukri al-Mabkhout

Autore: Gabriele Santoro
Testata: Minima & Moralia
Data: 5 ottobre 2017
URL: http://www.minimaetmoralia.it/wp/sogni-della-gioventu-tunisina-intervista-shukri-al-mabkhout/

Correva l’anno 2015. Una settimana dopo aver saputo che il proprio romanzo era stato bandito dalle librerie degli Emirati Arabi Uniti, per riapparire successivamente, Shukri al-Mabkhout ha ricevuto nella capitale Abu Dhabi il più importante premio internazionale per la narrativa araba (International prize for arabic fiction) per il romanzo d’esordio L’Italiano (traduzione dall’arabo di Barbara Teresi, 365 pagine, 18.50 euro), uscito in Tunisia nel 2014 col titolo al Talyānī e recentemente pubblicato in Italia da e/o. Un paradosso evidente che tuttavia non sorprende, e coglie lo spirito dell’opera capace di disvelare ipocrisie e contraddizioni di società sospese tra la conservazione coatta e la rivoluzione.

Al-Mabkhout, classe 1962, nato a Tunisi, accademico, rettore dell’Università di Manouba e direttore della fiera del libro della capitale tunisina, apprezzato critico letterario e traduttore ha scritto un romanzo di rilievo, che riesce a incarnare aspirazioni, lotte e disillusioni di un popolo alla ricerca di libertà e dignità. Al-Mabkhout ha cominciato a scriverlo stimolato dai tumulti della rivoluzione tunisina nel 2011, che esprimevano anche l’anelito represso dei giovani della generazione precedente. È una critica al potere pur nelle evoluzioni mai dissimile nella propria violenza.

«Il grande sviluppo della narrativa araba è una testimonianza della nostra presa di coscienza o della consapevolezza dei fallimenti e dell’oppressione. Scrivere romanzi è lo strumento letterario per esporre tutte le nostre contraddizioni ed essere liberi», dice l’autore.

L’italiano è Abdel Nasser, così soprannominato per la bellezza e i propri tratti somatici, e rappresenta la vicenda di uno studente di sinistra immerso negli eventi che caratterizzarono il tramonto della dittatura di Bourguiba e l’inizio del regime di Ben Ali nel 1987. È un trentenne smarritosi nella ricerca di un mondo che non c’è. Abdel, finito a fare il giornalista filogovernativo, appassito per il futuro mancato di una modernità che non assomiglia per nulla a quella sognata, e la giovane sposa Zeina, l’intellettuale impossibile da irregimentare, da cui divorzierà, affrescano dal microcosmo dell’Università di Tunisi il travaglio mai concluso di un Paese.

Al-Mabkhout, c’è un filo rosso che congiunge i sogni del giovane Abdel Nasser a quelli dell’odierna gioventù tunisina?

«Lui è il simbolo di una generazione, la mia, delle ideologie, delle lotte e dei conflitti di un’epoca, della sinistra sotto la dittatura. Idee e valori che non trovavano modo di realizzarsi in una società profondamente conservatrice, plasmata da un regime atroce che non permetteva la libertà di manifestazione del pensiero e dell’azione politica. Oggi in tutto il mondo è cambiata la nozione stessa di sinistra, ma le questioni e i desideri restano tali. I giovani e le giovani emersi dalla rivoluzione hanno altre sensibilità, altri modi di guardare il mondo e di agire. Personalmente coltivo le illusioni di Abdel, che mi appartengono, ma la mia sfida, consapevole della storia, consiste nel conoscere questa generazione, il suo linguaggio».

L’università è quasi un personaggio del romanzo, un luogo che condensa e dipana gran parte delle aspirazioni anche politiche di una generazione. Dal suo osservatorio presso l’Università di Manouba che cosa scruta?

«È vero, il romanzo prova pure a descrivere il ruolo dell’università nella lotta per la libertà in Tunisia, un’enclave in cui si tentava l’opposizione alla dittatura. Era uno spazio in cui tutte le tendenze politiche, seppure sotto osservazione permanente del regime, che non trovavano spazio pubblico fuori dalle aule potevano esprimersi. Molti movimenti di sinistra o nazionalisti arabi sono nati e fioriti all’interno dell’università, poiché gli studenti erano intellettualmente in grado di formulare teorie e proposte politiche. Dopo la rivoluzione del 2011 il quadro è più complesso. L’apertura del campo partitico ha contagiato la realtà universitaria, i militanti hanno invaso un terreno di sperimentazione politica e minato anche la crescita culturale, ciò ha scavato fossati interni, indebolendo i movimenti studenteschi e l’istituzione stessa. Non sono mancate le tensioni, numerose le interruzioni dell’attività con una mera retorica dell’esclusione dell’avversario. Anche l’università vive una fase di transizione».

La figura di Zeina emerge proprio all’università e il protagonista maschile, Abdel, in qualche modo da lì si rivela nel rapporto con le donne che hanno un ruolo preponderante nella narrazione. Che cosa le accomuna?

«Non è possibile generalizzare la figura femminile, ma sono unite dalla volontà di emanciparsi non solo individualmente. Ognuna di loro si batte con le proprie esitazioni e visioni del mondo. Le sofferenze, le ferite e le urgenze non differiscono da quelle delle donne occidentali. Hanno una dialettica con Abdel che tira fuori le sue contraddizioni, debolezze e il macismo. Nella ricerca delle donne raffigurate nel testo, nella loro indipendenza si disvelano le ipocrisie e la povertà culturale delle società conservatrici».

Dall’indipendenza nel mondo arabo musulmano la Tunisia è il paese a garantire più diritti alle donne. L’articolo 21 della Costituzione tunisina afferma che i cittadini e le cittadine sono eguali davanti alla legge, hanno medesimi diritti e doveri, e al secondo comma dà loro eguali libertà e diritti individuali e collettivi. Una lunga marcia che rappresenta un’eccezione e il cui successo non può essere scisso dal sogno della rivoluzione?

«Sì, la nostra storia è particolare e si collega alla costituzione dello Stato nazionale. Nel 1956 la legge proibì la poligamia, concesse l’adozione vietata dalla legge islamica, prima che in Francia e in Italia è stato riconosciuto il diritto all’aborto, è stata garantita la parità nell’accesso all’istruzione e al mondo del lavoro. Oggi la percentuale delle donne iscritte all’università è più alta rispetto a quella degli uomini, così come in altri settori lavorativi dall’insegnamento alla medicina. È una dinamica sociale creata da un complesso di leggi progressiste, che tutt’oggi non ha eguali nei paesi arabi musulmani. Il percorso legislativo prosegue dalla più recente misura contro la violenza all’eguaglianza in materia di eredità a differenza del dettato coranico, passando per la possibilità di poter sposare un uomo non musulmano. Tutto ciò corrisponde a una medesima logica riformista. La donna in Tunisia sta costruendo un nuovo modello di famiglia. Ovviamente non è tutto perfetto, come d’altra parte in Occidente, ma siamo dentro a un processo di standardizzazione dei diritti e resta molto lavoro da fare».

Rispetto a tali conquiste esiste un pericolo di regressione?

«Non credo, perché non si tratta di diritti acquisiti ma vissuti che è qualcosa di più profondo dal solo riconoscimento su un piano giuridico. La donna tunisina li vive quotidianamente e ha un peso crescente nella società. Le stesse donne che militano dentro a partiti o movimenti di matrice islamica hanno interiorizzato questo spirito, diciamo progressista, e non considerano passi indietro verso condizioni formali e sostanziali di svantaggio. Escludono per esempio la possibilità di un ritorno alla poligamia. Tentativi di questo genere hanno subito incontrato l’opposizione con grandi manifestazioni. Tutti hanno compreso che la donna tunisina lotterà per difendere i propri diritti».

La Tunisia dibatte ancora i termini del ruolo che l’Islam giocherà nella vita pubblica, politica. Colpisce un episodio recente di cronaca. Un’insegnante, Faiza Souissi, di una scuola elementare della città di Sfax, centro economico del paese, è stata aggredita verbalmente da un gruppo di genitori di alunni, accusandola di essere ostile ai precetti religiosi: bambini e bambine non avrebbero dovuto sedersi vicini. È dovuta intervenire la polizia per scortarla a casa.

«Lo Stato nazionale costruito da Bourguiba non era laico, lui stesso si scagliò contro la laicità di Kemal Ataturk. Lo mise all’indice, sostenne come ciò fosse folle: non si possono cambiare le società musulmane attaccando l’Islam. Bourguiba vendette tutte le riforme in nome della religione, esattamente ciò che gli islamisti hanno sempre fatto. Ha mantenuto un comportamento da equilibrista con la religione di Stato, neutralizzando esponenti di quel potere. La questione religiosa non avrà molta influenza sull’avvenire almeno giuridico del paese. La disputa ideologica, politica invece resta aperta. Anche prefigurando uno scenario pressoché impossibile, gli islamisti al potere, non potranno modificare le fondamenta più che radicate dello Stato».

A proposito dell’eguaglianza di genere, in occasione della festa della donna, che nel paese si celebra il 13 agosto, anniversario della promulgazione nel 1956 del Code du statut personnel, testo fondamentale per i diritti delle donne, il presidente Béji Caïd Essebsi, auspicando il progresso della parità in tutti i campi, si è espresso con altrettanto equilibrismo: «Abbiamo una Costituzione secondo la quale lo Stato è civile, ma tutti sanno che il nostro popolo è musulmano e le riforme non devono scioccarlo. Al contempo bisogna dire che dobbiamo sempre più dirigerci verso l’eguaglianza in tutti gli ambiti. Ho fiducia nell’intelligenza dei tunisini e dei legislatori. Troveremo formule che non offendano nessuno, senza mettere in discussione la giustizia». Rimane la questione centrale: come leggere il testo sacro?

«La sharia è la fonte fondamentale della legge? O la fonte è civile? La Tunisia ha superato questo problema già prima durante l’epoca coloniale. C’è una tradizione civile che affonda le radici nel diciannovesimo secolo. Nel 1844 la Tunisia abolì lo schiavismo, che esiste nel Corano, con un decreto religioso, una fatwa. I religiosi lo accettarono. Dopo le “primavere arabe” le cose si sono complicate con l’apparizione sulla scena politica degli islamisti con il sostegno di forze occidentali. Linearmente, dopo la costituzione varata nel 2014, tutti hanno compreso che ci sono degli standard internazionali da rispettare per quel che concerne i diritti, le libertà individuali e collettive».

Che cosa manca alla Tunisia per portare a compimento la rivoluzione?

«Oggi il problema principale è l’economia, non il terrorismo, non i movimenti politici islamisti. Se ci fossero degli investimenti cospicui con la conseguente ripresa economica la rivoluzione tunisina si concretizzerebbe. I tunisini non sono estremisti, che cosa domandano? La dignità necessaria a vivere non l’elemosina. Occorre creare posti di lavoro ed è impossibile senza investimenti. All’epoca di Ben Ali la Francia, Bruxelles e le istituzioni economiche sovranazionali negavano aiuti pretendendo che fossero rispettati i diritti umani e la democrazia. Ora che abbiamo diritti umani in abbondanza, è lo Stato a essere indebolito. È un’ipocrisia volere che la Tunisia riesca a essere un esempio nel mondo arabo musulmano senza fare nulla per sostenerla. E non bisogna sorprendersi che i nostri disoccupati vogliano poi raggiungere l’Europa. Il terrorismo ormai purtroppo può colpire ovunque, non può essere una ragione per impedire gli investimenti».

Che fare?

«La Spagna dopo Franco era allo stesso livello della Tunisia, inoltre era una società dominata dalla religione. In che modo hanno trasformato la Spagna? Con gli investimenti dell’allora Comunità economica europea».

Nel romanzo affiora la funzione rilevante del sindacato. L’Unione Generale Tunisina dei lavoratori ha ricoperto un ruolo centrale nella vita politica e sociale del paese, compreso il recente e delicato processo democratico post rivoluzionario, che ha concepito la Costituzione nel 2014. Nel 2015 l’UGTT, insieme ad altre organizzazioni, ha vinto il Premio Nobel per la Pace per aver sostenuto il dialogo fra le parti politiche. In Tunisia non si avvertono i sintomi della crisi d’identità del sindacato in Europa?

«Questa forza sociale ha permesso alla Tunisia di evitare la guerra civile. Dall’inizio della propria storia è stata l’unica parte ad avere un progetto socioeconomico, dunque dall’indipendenza lo Stato nazionale guidato da Bourguiba, impegnato nella lotta per il potere, non avendo un programma ha mutuato quello dell’UGTT. Da questa fase il rapporto si è molto intrecciato pur fra alti e bassi. Nel 2011 nessuna fazione politica era in grado di farsi carico del governo del paese se non ancora il sindacato. Sono stati commessi degli errori, ma alla resa dei conti questo corpo intermedio ha fornito un equilibrio essenziale nel paesaggio politico e mantiene una grossa influenza. Non si possono approvare norme senza aver preso in considerazione il punto di vista sindacale e la concertazione».

All’inizio della vita coniugale Abdel e Zeina raffigurano l’alba di una lunga stagione di frammentazione e precarizzazione del mondo non solo del lavoro. Qual è l’esito?

«La paura, l’angoscia e la poca speranza sono i sentimenti dominanti anche nella gioventù tunisina, che di per sé sarebbe ricca di energia, di intelligenze fertili e idee che si scontrano con la realtà nella quale non c’è ciò che si cerca. Durante la transizione democratica sono emersi in superficie tutti i problemi come i mostri negli incubi».

Giornalismo, censura e autocensura: in che modo sta cambiando lo scenario mediatico in un contesto democratico?

«Prima era molto semplice. Esisteva una dittatura, dunque tutto veniva censurato e non occorrevano sforzi per conoscere chi gestiva la macchina dell’informazione. Sia chiaro, nulla di accettabile per un giornalista con una soglia minima di valori. Dopo la rivoluzione tutti hanno il diritto di parlare, ma mancano i mezzi. Non si può fare buon giornalismo senza la necessaria copertura economica. Avere a disposizione dei soldi tuttavia equivale a instaurare rapporti con i politici. Attraversiamo una fase direi di berlusconizzazione dello spazio mediatico. Si sta sviluppando un legame incestuoso fra mondo politico, denaro e informazione soprattutto per quanto concerne le emittenti televisive e radiofoniche».

Quella tunisina appare a tutti gli effetti l’unica “primavera” sopravvissuta. Non intravede alcun rischio di ritorno a un regime di polizia?

«Onestamente no. Ci sentiamo liberi, respiriamo, tuttavia permane la tentazione di dominazione da parte degli apparati di polizia e sicurezza. I corpi, gli uomini sono gli stessi che agivano prima del 2011. C’è un’attitudine, ci sono delle devianze ma non possono essere collegate a un indirizzo politico generale. Ci sono agenti che non hanno la cultura di esercitare il proprio mestiere entro una linea di confine democratica. Qualche incidente è avvenuto ma appunto non esprime una politica cosciente e ben organizzata. Il rischio non è svanito. Non possiamo anticipare la reazione di un apparato statuale indebolito dalla contestazione sociale. Oggi però nutriamo la certezza che la Tunisia non possa essere governata con la forza».