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Uomini liberi tenuti prigionieri: "La santa tenebra" di Levan Berdzenišvili

Autore: Claudia Consoli
Testata: Critica Letteraria
Data: 6 gennaio 2019
URL: https://www.criticaletteraria.org/2019/01/Berdzenisvili-la-santa-tenebra.html

Edizioni e/o presenta La santa tenebra come l'unico libro sui gulag sovietici che è impossibile leggere senza ridere, una descrizione che - lo ammetto - mi ha incuriosita subito, ancor prima di scoprire la trama, prima di informarmi sull'autore, prima di fare le mie piccole ricerche sulla storia della Georgia.

Questo è stato per me un anno di viaggi letterari impegnativi, come quello alla colonia penale di Čechov, così ho deciso: La santa tenebra sarebbe stato il libro con cui chiudere il 2018.

Dicevamo: si può scrivere un libro sui Gulag sovietici che faccia sorridere? L'autore ci è riuscito, non perché la lettura strappi una risata nel senso più comune del termine, almeno non nel mio caso, ma perché per parlare di un tema importante ha scelto un registro che non è mai greve: uno humor nero nutrito di citazioni colte, sarcasmo politico, sottili quiproquò storici. Un approccio un po' spiazzante sulle prime, con cui ho familiarizzato pian piano, imparando a conoscerlo e riconoscerlo.

Berdzenišvili (Georgia, 1953) è stato uno degli ultimi condannati della storia sovietica, tra i fondatori del Partito repubblicano georgiano, docente universitario di Storia della letteratura antica, traduttore di Aristofane e anche direttore della Biblioteca nazionale di Tbilisi.

Dal 1984 al 1987 ha scontato nel gulag la pena per la fondazione del partito repubblicano per l'indipendenza della Georgia, un atto di insubordinazione antisovietica in un sistema a partito unico in cui "tutte le correnti politiche non comuniste erano per definizione illegali".

A Baraševo, luogo-non luogo in cui si è perso e in qualche modo ritrovato, ha vissuto un periodo fatto sì di isolamento, punizioni, privazioni, ma anche e soprattutto di incontri. È a questi che dedica il suo romanzo, ripercorrendo la propria esperienza nel campo dal punto di vista della sua componente umana. I capitoli hanno i nomi di persone, di condannati con cui Levan ha convissuto: nel nominarli l'autore dà forma al sistema gulag raccontandone il funzionamento, i ritmi, i riti, le assurdità.

C'è l'inguaribile ottimista Arkadij che come un cantastorie si esibisce nel racconto di poemi ed eroiche storie di guerra; Zakaria (detto Johnny), il miglior tassista di Tbilisi che sa a memoria la topografia della città e sogna la lotta armata; Michail da Pietroburgo, l'animo nobile che gioca a backgammon in un modo tutto suo; Anadenko, pensatore socialdemocratico e "marxista non violento", mente critica e spirito di cavaliere. Con loro, tanti altri ancora: uomini liberi tenuti prigionieri, personaggi che si affacciano uno alla volta sul palco del romanzo, si raccontano, un inchino al pubblico e avanti il prossimo. Una struttura che a tratti corre il rischio di apparire un po' rigida e ripetitiva, ma che per alcuni può magari avere il pregio di fare godere le storie anche come racconti singoli.

L'autore appare e scompare dentro il racconto delle vite degli altri di cui tiene le fila, tenendosi un po' in disparte: raccontando di loro ci dice anche di se stesso, delle camminate a passo di marcia che facevano tra il blocco di isolamento e i cancelli del campo, delle partite a scacchi, dei programmi in televisione che guardavano al circolo-mensa, dei tornei di ping-pong, dei dibattiti politici. Invece di fare di se stesso il centro dell'ecosistema racconto, si rappresenta come un tassello piccolo in una storia più grande, lasciando alla penna la prima persona solo all'inizio e alla fine del libro. L'ho trovato un segno di rispetto e di estrema riconoscenza nei confronti dei compagni che hanno reso umano un periodo che non lo era.

Quello che ho trovato più interessante è che Levan è il portavoce di un'esperienza politica sui generis, quella degli ultimi condannati sovietici, che hanno vissuto lo straniamento della prigionia in un momento in cui il mondo, in Russia e fuori, stava cambiando. È l'esperienza dei condannati che stanno in un territorio di confine non solo geografico, ma anche storico:

il nostro non era il Gulag dei sanguinosi anni Trenta, né quello della Seconda guerra mondiale, né quello dei primissimi dissidenti, e neppure quello della "stagnazione" brezneviana. Erano gli anni della democrazia sovietica, della glasnost', della perestrojka: come gli stalinisti aprivano bocca sulla Pravda, il settimanale Ogonëk pubblicava per ripicca la "Lettera aperta a Stalin" di Fëdor Raskol'nikov, un testo fortemente critico che nel nostro giro conoscevamo tutti molto bene. Un giorno il telegiornale ci imbandiva la solita broda propagandistica, l'indomani passavano in televisione gli auguri di buon anno di Ronald Reagan.

E poi c'è la cultura, protagonista delle conversazioni all'interno del campo e delle riflessioni di Berdzenišvili che, come una creatura a due teste (un po' uomo dell'Atene antica e un po' cittadino sovietico), si confronta tra le righe con il pensiero di Socrate, Democrito, Pitagora, Tolstoj, Hegel e Popper.

La cultura e l'ironia, che in fondo altro non è che una manifestazione della cultura, sono le uniche risposte possibili all'insensatezza della dittatura, le uniche risorse di resistenza e di coraggio per l'uomo che vive e ha la missione di raccontare.

In una mattina d'inverno, quando viene arrestato, tiene in mano la sua tesi su Aristofane.

Non so se anche voi, come la copertina promette, riderete leggendo i dialoghi tra i personaggi: sicuramente ci sono passi del libro che generano l'umorismo come quel "sentimento del contrario" di cui parlava Pirandello. È lì che nascerà un sorriso, ma sarà amaro come il giardinetto con le rose in fiore dentro il campo di prigionia.