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“La santa tenebra” di Levan Berdzenišvili

Autore: Felice Laudadio
Testata: Sololibri
Data: 3 aprile 2019

Se un uomo ha un destino, perché non dovrebbe averlo anche un libro? Levan Berdzenišvili se ne dice sicuro, ma sia ben chiaro - per restare in tono con l’humour del romanzo - da questo momento l’autore sarà unicamente Levan. Pronunciare quel cognome georgiano è uno scioglilingua impossibile, da evitare ad ogni costo. Non comunista, è stato per tre anni prigioniero politico nell’Urss e lo racconta in “La santa tenebra”, uscito in lingua originale nel 2013. Tradotto da Francesco Peri, è stato pubblicato in Italia nell’ottobre 2018 dalle Edizioni e/o (272 pagine 18 euro), che lo hanno annunciato come l’unico libro sui gulag sovietici ch’è impossibile leggere senza ridere.

Nato nel 1953 a Batumi, laureato in filologia classica, Levan - o anche Mr. B., come lo chiamano negli Usa, sempre per l’ostica difficoltà del cognome - è stato tra i fondatori del partito repubblicano in Georgia e si è scontrato con il divieto assoluto di andare oltre il partito unico sovietico, nell’ultimo decennio della cortina di ferro. L’ospitalità forzata nei campi di rieducazione politica in Mordovia ha ispirato il suo romanzo, che considera nato “per sbaglio” perché qualcuno sapesse di Arkadij Dudkin, ospite per trent’anni delle colonie penali sovietiche. Dudkin è Levan, ma con un’altra storia, diventata un libro per caso, dal racconto della prigionia ad una dottoressa dell’ospedale di Washington, nata da una reclusa proprio nel gulag di Barasevo. Lo aveva preteso in cambio delle cure prestate a Levan, affetto da una pericolosa infezione cutanea, ma privo di assicurazione sanitaria nell’esosa ospedalità a stelle e strisce. È così che ha deciso di rievocare sotto travisate spoglie i tre anni nel Campo di Barascevo: “i migliori della sua vita”, sostiene. Innanzitutto perché allora era giovane e non c’è età più bella della giovinezza nell’esistenza di un uomo, poi perché sono stati i più importanti che abbia vissuto, “circondato da un gruppo di persone eccezionali che il Kgb si era dato un gran da fare per riunire tutti insieme in un solo posto”, affidati alle attenzioni degli “indefessi custodi”.

Prima dell’internamento, Levan è rimasto per quattro anni in attesa dei guai, sotto l’accusa di aver costituito un partito politico non riconosciuto. Invece il Dudkin del romanzo era finito nella colonia penale fin dalla Seconda guerra mondiale, reo di aver collaborato coi nazisti e condannato alla detenzione a regime duro per alto tradimento e crimini di guerra.

Arkadij aveva solo 17 anni ed era mentalmente lento, oltre che totalmente analfabeta e incapace di fare praticamente alcunché, quando gli invasori tedeschi gli avevano messo in mano un mitra e l’avevano incaricato di garantire l’ordine nel suo villaggio. Appena una settimana dopo, un contrattacco riprese la zona e Dudkin si ritrovò in mano ai rossi, molto ma molto arrabbiati.

Tra i 150 compagni di detenzione a Barasevo, Grisa era di religione ebraica e aveva da scontare una condanna per agitazione e propaganda antisovietica. In effetti si era limitato a fare il tifo per i correligionari nel conflitto arabo-israeliano, ma questo era più che sufficiente nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche per finire in uno spazio angusto, governato da una direzione ossessivamente e compulsivamente votata al controllo del corpo e della mente degli “ospiti”, all’insegna di motti di superiore saggezza socialista che tappezzavano le pareti degli uffici. Moniti come

“Ad ognuno la sua pagnotta” o “Meglio pensarci prima che poi”.

Georgij Pavlovic Khomizuri, per tutti Zora, aveva la fissa dei numeri, tanto bastava per svegliare nel cuore della notte un compagno di sventura e congratularsi con lui perché nel giro di 50 secondi ne sarebbero mancati 44.444.444 alla liberazione. Johnny, un raro georgiano biondino come uno slavo, si innamorava delle pochissime donne che frequentavano il campo, compresa la dottoressa Tamara, che solo lui conosceva, perché solo lui poteva entrare nell’ospedale, interdetto agli altri. Spasimava perfino per l’acerrima nemica di ognuno di loro, la signora Ganicenko dell’ufficio censura, sadicamente implacabile nella sua funzione, a danno dei detenuti e loro famiglie.

Lo stesso Levan, nonostante provasse per lei pulsioni omicide nei modi più efferati, ammette di essersi lasciato sfuggire un commento, “una botta e via”, che gli aveva attirato le critiche dei “democratici” del gulag. Erano la popolazione di Barasevo più giovane, dissidenti e politici accusati di “agitazione e propaganda”, formula onnicomprensiva, buona a contemperare tutto. Gli altri erano i “vecchietti”, spie, traditori, criminali. Le loro colpe risalivano agli anni della guerra ma la condanna era arrivata molto dopo, per lo zelo tardivo della polizia politica o l’attivismo solerte dei pionieri, i ragazzi del Komsomol, l’organizzazione giovanile del partito comunista.

Per quanto riguarda Levan, venne arrestato mentre stava portando in tipografia la tesi su Aristofane. “Vado di fretta”, aveva detto a chi gli si era fatto vicino. “Sbagliato, non c’è più nessuna fretta”: era un colonnello del Kgb.